62 anni dopo i trattati di Roma: perché abbiamo ancora bisogno d’Europa

“For over six decades contributed to the advancement of peace and reconciliation, democracy and human rights in Europe”. Basterebbe rileggere le motivazioni del premio Nobel per la pace del 2012, per ricordare il senso autentico dell’Unione Europea.
Senza questa visione di fondo che ha portato a un’unione politica in un continente fino ad allora diviso da guerre, il dibattitto sull’Europa, così come quello sull’euro, rischia di diventare un mero bilancio tra dare e avere, mettendo in dubbio veri e propri capisaldi del progetto d’integrazione, dalla moneta unica alla libera circolazione di merci, capitali e persone. Lacune dell’architettura europea e incertezze nella sua operatività vengono sempre più spesso sottolineate non tanto per mettere in evidenza un bisogno di rafforzamento della coesione sui temi strategici, quanto per indebolire l’idea stessa di integrazione.
A pochi giorni dal voto, un tale scenario impone allora alcune riflessioni su come l’intero processo di integrazione abbia storicamente portato vantaggi ai Paesi aderenti – Italia in particolar modo – e, soprattutto, su quanto la dimensione europea rimanga ancora oggi imprescindibile nell’affrontare sfide sempre più globali.
Uno sguardo di lungo periodo, doveroso vista la natura strategica del tema, racconta come non solo l’Unione di per sè, ma i Paesi stessi abbiano beneficiato di trasformazioni virtuose. Da quando, nel marzo 1957, con la firma dei trattati di Roma, l’Italia e gli altri cinque Stati fondatori (Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi) diedero vita effettiva alla Comunità Economica Europea (CEE), il progetto europeo ha saputo progredire sia in intensità che in estensione (figura 1). Da allora l’integrazione ha visto l’adesione di altri 21 stati in 7 successivi “allargamenti” (1973, 1981, 1986, 1995 2004, 2007, 2013) e il progressivo sviluppo dell’integrazione commerciale, monetaria (per alcuni) e politica, con il coordinamento delle politiche economiche nazionali e l’introduzione di autorità sovranazionali.
- Fonte: Dorrucci, E., Ioannou,D., Mongelli, F., and Terzi, A. (2015)
Guardando nello specifico all’Italia, l’Europa ha accompagnato il nostro Paese lungo una profonda maturazione, prima di tutto economica e industriale, promuovendo la trasformazione di una realtà a forte vocazione agricola (ancora all’inizio degli anni ‘60 l’agricoltura era il primo settore d’occupazione) nella seconda manifattura d’Europa. Negli anni l’Italia ha visto triplicare il proprio Pil pro-capite (figura 2) e accrescere il proprio peso nel commercio internazionale: verso il mercato unico europeo sono destinati ancora oggi il 56% delle esportazioni nazionali e un ulteriore 15% è riconducibile a mercati con cui la politica commerciale comune ha stretto accordi preferenziali, migliorandone l’accessibilità soprattutto per le piccole e medie imprese. Nello stesso periodo la bilancia commerciale (figura 3) è passata da un saldo medio appena positivo per 460 milioni negli anni ‘60 (0,5% del Pil), a un saldo medio positivo per oltre 50 miliardi (3% del Pil) negli ultimi 5 anni (dati in dollari a prezzi correnti).
- Fonte: World Bank
- Fonte: World Bank
Per il programma Erasmus+ il bilancio Ue ha stanziato circa 14,7 miliardi di euro per il periodo 2014-2020, di cui 203 milioni solo in Italia, nel 2017, il 2% della spesa Ue in Italia.
- Fonte: OCSE (2019)
- Fonte: Commissione Europea (2018)
I cittadini italiani residenti in un altro Stato membro nel 2017 erano 1,1 milioni, il 40% in più rispetto al 1995, e il 33% in più rispetto al 2010, di cui oltre la metà residenti in Germania, seguita da Regno Unito, Francia e Belgio. I cittadini emigrati sono mediamente più istruiti e più inseriti nel mercato del lavoro: il 32,5% dei cittadini italiani residenti in Ue è laureato, contro una media nazionale del 17,8% (la media Ue è 32,4% per gli emigrati, ma 30,1% per il totale), mentre il tasso di occupazione degli emigrati italiani e dei loro connazionali in Italia è rispettivamente del 75,6% e 62,3%: un gap di 13,3 punti percentuali, ben superiore alla media Ue (4 p.p.).
- Fonte: Eurostat (2019)
I benefici dell’integrazione europea vanno peraltro oltre, anche se non sempre è agevole la loro quantificazione: oltre alla spesa diretta dell’Ue tramite finanziamenti e sussidi, esiste infatti un “valore aggiunto” dell’adesione all’Unione legato a guadagni in efficienza e in benessere dovuti alla rimozione delle barriere tra i Paesi dell’Unione e una maggiore integrazione e collaborazione nell’allocazione delle risorse. I primi tentativi di stima del cosiddetto “moltiplicatore” dell’Ue risalgono agli anni ‘80, con la pubblicazione dei report Albert-Ball e Cecchini che tentarono di quantificare i benefici economici del completamento dell’unione doganale. Il concetto è stato ripreso più recentemente nello studio “Mapping the cost of non Europe”, che ha stimato i costi, in termini di perdita di efficienza, dell’assenza dell’Unione Europea. I costi principali di “non far parte” dell’Unione, o, in positivo, i benefici dell’Ue sono quantificati in 1.751 miliardi di euro all’anno, ripartiti come illustrato in figura 7[1].
- Fonte: Parlamento Europeo (2017)
Se i benefici intangibili sono più difficili da far emergere, una riflessione finale sui legami dell’Italia con l’Europa può nascere comunque dall’analisi di quanto è stato speso dei fondi comunitari. A fronte di un contributo ricevuto dall’Italia di 12 miliardi, l’Ue spende infatti ogni anno nel nostro Paese 9,8 miliardi. Questo apparente squilibrio va letto in primo luogo alla luce dei già citati vantaggi impliciti dell’appartenenza al mercato unico e soprattutto in chiave storica. Il bilancio italiano di lungo periodo appare ancora piuttosto equilibrato, o quantomeno in linea con lo status auspicabile per un Paese del peso economico e livello di ricchezza di grandi Paesi. Portando ai prezzi di oggi e facendo le somme dei flussi in entrata e in uscita dal 1970, con i primi contributi alla CEE, ad oggi, l’Italia ha accumulato un contributo netto di circa 16 miliardi di euro in quasi cinquant’anni, meno di quanto registrato per Germania, Francia e Regno Unito (Figura 8).
- Fonte: European Commission (2008) e European Commission (2018b)
I fondi destinati all’Italia sono composti in gran parte da tre veicoli principali: il Fondo per lo Sviluppo Regionale (ERDF, 45%), che si occupa di sussidi alle pmi, ricerca e innovazione, il Fondo per lo sviluppo agricolo e rurale (EAFRD, 28%) e il Fondo sociale Europeo (ESF, 23%), che si occupa di sviluppo sostenibile, formazione e inclusione sociale. Tuttavia i fondi strutturali della programmazione europea 2014-2020 ad oggi (i dati sono aggiornati in tempo reale), a solo un anno dalla fine del ciclo di Programmazione, risultano allocati per il 56% e spesi solo per il 17% (in valore assoluto la metà di quello che ha già speso la Polonia) (Figura 9). Il ritardo nell’allocazione e nella spesa dei fondi è poi altamente eterogeneo tra le regioni italiane, con un gap di quasi 11 punti percentuali tra le regioni del nord e le regioni del sud per quanto riguarda il tasso di spesa (Nord: 26%, Centro 18%, Sud 15%).
- Fonte: Commissione Europea (2019)
La forte concentrazione degli interventi sul settore agricolo suggerisce comunque che i margini di miglioramento nei rapporti con l’Europa non si esauriscono in una gestione più efficiente o nell’accaparrare qualche risorsa in più. E’ necessario riorientare la spesa sulle grandi sfide competitive globali. Attraverso un dialogo costruttivo con l’Europa, l’Italia deve contribuire a contrastare un’inefficienza strutturale che rallenta l’Ue nella sfida della competitività con Usa e Cina. I fondi in Ricerca e Sviluppo (R&D), infatti, sono solo al terzo posto nel budget Ue e, soprattutto, sono solo un quarto dei fondi destinati all’agricoltura. Nonostante la realizzazione di Horizon2020 – che, con un totale di 80 miliardi a disposizione, è il più grande programma quadro per la ricerca mai realizzato dall’Unione Europea –, l’intensità di R&D dell’Ue è rimasta invariata al 2,03% per tre anni, dal 2013 al 2016, superata dalla Cina nel 2015 (2,07%). In un contesto competitivo in cui gli investimenti in innovazione rappresentano tra il 60 e il 70% della crescita in produttività, lo sviluppo di una strategia comunitaria per l’innovazione è un passaggio fondamentale per la competitività degli Stati membri e, quindi, per l’Europa. Riconoscere un valore a queste iniziative è il presupposto per un bilancio compiuto sul contributo che l’Europa ha dato all’Italia, che altrimenti rischia di ridursi a una mera somma contabile del dare e dell’avere.
In sintesi la strada europea, pur con fisiologici miglioramenti, appare ancora l’unica strada competitiva solida per rimanere centrali in un mondo in cui la globalizzazione vede emergere con sempre maggior forza i blocchi regionali, in cui i Paesi di dimensioni minori rischiano di essere marginalizzati. Per non parlare dei temi strategici che caratterizzeranno le sfide dei prossimi anni: dalla cyber security all’IoT, dall’intelligenza artificiale alla surveillance, dalla difesa al welfare. Il cammino condiviso, le alleanze, il confronto costruttivo costituiranno l’unica strada per continuare a crescere e difendere i valori di dignità, pace, democrazia e prosperità che ispirarono i padri fondatori dell’Europa e che ancora oggi i cittadini europei più giovani considerano i pilastri della loro casa comune.
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