Per una PMI italiana, la decisione di internazionalizzarsi rappresenta oggi molto più di una semplice opzione di crescita, è un atto imprenditoriale strategico e, in molti casi, una necessità per garantire la sopravvivenza e la prosperità dell’azienda in un mercato globale sempre più interconnesso e competitivo.
Tuttavia, il percorso di espansione oltre i confini nazionali è tutt’altro che lineare. Spesso, gli imprenditori si focalizzano sui potenziali reward – l’ampliamento del fatturato, la diversificazione del rischio Paese, l’aumento di prestigio – rischiando di sottostimare la complessità del processo. Internazionalizzare non è semplicemente “vendere all’estero”; è un’operazione che richiede un cambio di mentalità, un’immersione profonda in un nuovo ecosistema culturale, normativo e competitivo. Si tratta di un viaggio che mette alla prova ogni aspetto dell’impresa, dalla capacità di adattare il proprio prodotto o servizio senza snaturarne l’identità, alla gestione di burocrazie spesso farraginose; dalla costruzione di una supply chain affidabile in un territorio sconosciuto, alla creazione di un messaggio di marketing che risuoni con sensibilità culturali diverse.
Proprio per trasformare queste sfide da ostacoli insormontabili in opportunità pianificabili, è fondamentale ascoltare le storie di chi questo viaggio l’ha già compiuto. Le esperienze sul campo sono la cassetta degli attrezzi più preziosa per chi si prepara a partire. È in quest’ottica che presentiamo l’esperienza di Enzo Neri, chef italo-georgiano che ha saputo portare con successo l’eccellenza della cucina italiana a Tbilisi. La sua storia non è solo una vicenda enogastronomica, ma un caso studio empirico e vibrante di come un imprenditore (in questo caso, uno chef) abbia affrontato e superato le tipiche fasi critiche dell’internazionalizzazione, dalla selezione del mercato all’adattamento, dagli intoppi burocratici all’individuazione delle leve commerciali vincenti. Attraverso questa intervista, vogliamo offrire ai nostri lettori non teoria, ma pratica pura: uno sguardo dall’interno su cosa significhi veramente costruire un’impresa di successo in terra straniera, con le sue difficoltà e le sue intuizioni geniali. Perché la migliore preparazione possibile parte dall’esperienza di chi ha già tracciato la strada.
LUCA MARRUCCHI: Ciao Enzo, grazie per la disponibilità. La tua avventura a Tbilisi è iniziata con una consulenza, per poi evolversi nella proprietà di ristoranti. Per una PMI che vuole internazionalizzarsi, ritieni che questo modello “soft landing” – partire con collaborazioni prima di investire in proprio – sia una strategia vincente per testare il mercato e costruire relazioni?
ENZO NERI: A dire la verità, Tbilisi non era nei miei piani. Tutto è iniziato nel 2015, quando un amico mi invitò a Sighnaghi, nella regione della Cachezia, per tenere una masterclass. L’evento ebbe una grande esposizione mediatica, sono apparso sulle TV locali e in molti articoli. Dopo quell’esperienza, sono tornato a New York, ma nel 2017 una rivista per cui avevo lavorato mi chiese di creare una ricetta georgiana in versione italiana. Mi sono ricordato dei khinkali, simili ai ravioli, e sapendo che in Italia nel Rinascimento si facevano ravioli al cioccolato, ho creato una versione dei khinkali al cioccolato, ripieni di nadughi (una sorta di ricotta) con noci e menta, serviti su crema inglese. La ricetta fece scalpore e alcuni georgiani la considerarono quasi un’offesa, anche se oggi quei khinkali si trovano in alcuni locali, senza che mi venga dato credito. Sempre nel 2017, un mio ex collega di Dubai mi disse che aveva preso un ristorante e mi chiese di andare ad aiutarlo ad aprire “La Bohème”, che inaugurammo a settembre. È stato così, per caso, che mi sono ritrovato a Tbilisi. La città mi piacque subito; mi ricordava l’Italia degli anni ‘80 e ‘90, quel periodo del boom economico. Pur sembrandomi un paese del terzo mondo, percepivo una vitalità unica e delle possibilità di crescita. Dopo il successo de La Bohème, iniziarono ad arrivarmi proposte di consulenza. Ho rivisto i menu del Filini e del Radisson, poi ho aperto Andropov’s, il primo ristorante mediterraneo con pesce a Tbilisi, con cui ho vinto un premio dalla guida Gault Millau nel 2018. Pensavo che la mia avventura fosse finita lì, tanto che nel 2019 lasciai il gruppo e andai in Montenegro per aprire un ristorante in un hotel 5 stelle, con l’idea di avvicinarmi all’Italia. Invece, finita quella consulenza, sono rientrato a Tbilisi e la pandemia mi bloccò lì. Fu allora che ebbi l’opportunità di aprire il mio primo ristorante. Da lì, non me ne sono più andato. Nel 2021, ormai avevo quasi quattro anni di presenza sul posto. Conoscevo bene Tbilisi, le mie possibilità come piccolo imprenditore e il target di clientela. Mi sono sentito pronto e, insieme a un italo-americano, Nicolò Ricciardi, abbiamo aperto “Vera Italiana”. Solo in quel momento ho capito che ce l’avrei fatta. Il mio nome era conosciuto e avevo le idee chiare. L’anno prima, sempre nella regione della Cachezia, avevo aperto con successo un pop-up restaurant e l’idea per Vera Italiana è stata proprio quella di trasportare quel concept a Tbilisi in una versione più grande e completa.
Per rispondere alla tua domanda Luca, credo che partire con collaborazioni prima di investire sia la cosa migliore. Ti dico la verità, guardando indietro, è stata la scelta che ha reso possibile tutto il resto. Quando sono arrivato la prima volta per quella masterclass nel 2015, non avevo la minima intenzione di restare. Ma è stato proprio quel primo approccio “leggero”, senza l’enorme pressione di un investimento mio sul tavolo, che mi ha permesso di assaggiare il mercato con calma. Fare la consulenza per aprire “La Bohème” è stato il passo successivo perfetto. Non ero io a rischiare il capitale, ma nel frattempo imparavo. Imparavo sul campo com’è lavorare qui, la burocrazia, come trovare i fornitori, ma soprattutto iniziavo a capire le persone, il loro modo di vivere e di fare business. Senza quella fase, avrei commesso un sacco di errori quando poi ho aperto “Vera Italiana”. È un po’ come fare amicizia. Non puoi arrivare in un posto nuovo e pretendere che tutti si fidino di te subito. Devi farti conoscere, mostrare quello che vali, costruire relazioni vere. Le consulenze mi hanno fatto conoscere, hanno fatto circolare il mio nome. Quando finalmente mi sono lanciato con il mio ristorante, non ero “l’ultimo arrivato”, ero “Enzo, quello che aveva già lavorato al Radisson e che aveva aperto La Bohème”. La fiducia che avevo costruito in quei anni è stato il mio capitale più grande. Quindi, per una PMI, lo consiglio vivamente, non buttatevi a capofitto. Trovate un partner, una collaborazione, un progetto pilota. È la strada più intelligente per non farsi male e per capire davvero se quel mercato fa per voi.
LUCA MARRUCCHI: Hai sottolineato con forza il valore dell’autenticità, portando avanti ricette come la carbonara senza panna. Per un’imprenditoria italiana che si espande all’estero, qual è, secondo la tua esperienza, il giusto equilibrio tra l’educare il mercato locale ai sapori originali e la necessità di adattarsi parzialmente ai gusti del pubblico per avere successo?
ENZO NERI: All’inizio non è stato facile, eh. I clienti georgiani erano abituati a versioni “localizzate” dei piatti italiani, spesso più pesanti o dolciastre. Quando gli servivo una carbonara gialla, cremosa solo grazie all’uovo e al pecorino, con quel guanciale che mi facevo arrivare apposta dalla Toscana, alcuni storcevano il naso. “Dov’è la panna?”, mi chiedevano. E lì invece di cambiare la ricetta, cambiavo il mio approccio. Mi avvicinavo al tavolo, con calma, e spiegavo: “Guardi, questa è la carbonara come la facciamo a Roma. Il sapore è più pulito, più autentico. Provi, poi mi dica”. È una questione di rispetto. Rispetto per il cliente, a cui offri il meglio della tua cultura, e rispetto per la tradizione italiana. Se avessi ceduto, ora sarei solo un altro ristorante che serve un prodotto “italianeggiante”. Invece, sono diventato un punto di riferimento per chi vuole il vero gusto italiano. L’adattamento che faccio non è sulla ricetta, ma sul come la presento. È come fare lo zelo con un bambino che non vuole mangiare le verdure: non le nascondi, gliele proponi con entusiasmo, gli spieghi perché sono buone. Ci vuole pazienza. E infatti, piano piano – “pian pianino”, come dico io – la gente ha iniziato ad apprezzare. Ora hanno fiducia in me. Sanno che se chiedono un piatto da me, lo ricevono come si deve. Quell’idea di autenticità totale l’ho applicata a tutto, non solo al cibo. Dai cartelli in italiano alla scelta delle parole sul menu. Voglio che qui dentro si sentiano in Italia. È così che costruisci un’identità forte e duratura. Alla lunga, il pubblico ti ringrazia perché gli offri un’esperienza unica, non un’imitazione. È una scommessa all’inizio, ma è l’unica che vale la pena di fare se vuoi distinguerti e durare nel tempo.
LUCA MARRUCCHI: Hai descritto una burocrazia snella ma un “ostacolo duro” nella comprensione dell’approccio al lavoro locale. Oltre agli aspetti legali, quanto è cruciale per una PMI prepararsi a gestire le differenze culturali e l’ethos lavorativo del paese target, e come si può affrontare al meglio questa sfida?
ENZO NERI: La burocrazia è molto più snella che in Italia. In 20 minuti e con 30 euro apri un’attività. La ricerca di fornitori all’inizio non è stata facile, ma avendo lavorato per importanti gruppi, ho conosciuto gli importatori locali. Poi, una volta aperto il ristorante, sono stati loro a venire da me. Ho visto un cambiamento radicale da quando sono arrivato a oggi. Per le normative igienico-sanitarie, ero già certificato e con esperienza in aperture worldwide, quindi ho gestito bene la formazione del personale sui protocolli HACCP. L’ostacolo più duro? Capire i georgiani. Onestamente, non sono dei grandi lavoratori, vanno spinti, sono un po’ pigri e prendono tutto a livello personale, facendo fatica a distinguere un rimprovero lavorativo da uno personale. Vivendo qui, ho capito le loro attitudini e ho smussato questi ostacoli. Forse sono state più frustrazioni personali che ostacoli veri e propri. Un altro intoppo è la diffidenza iniziale delle aziende locali. Si fidano poco, non concedono molto credito, all’inizio dovevi cercare tu loro. Ora, fortunatamente, le cose stanno cambiando e sono loro a venire a proporti business. Per alcune normative edilizie, all’inizio non sapevo che esistessero certi uffici e ho avuto qualche controllo a sorpresa per cose come l’installazione della cappa, che avrebbe richiesto progetti specifici. Mi sono messo in regola col tempo e ho pagato quanto dovuto. Si impara strada facendo. L’ostacolo più grande rimane il carattere chiuso dei georgiani. Sono un popolo bellissimo, ma devi “forzarli” ad aprirsi, a fidarsi, a investire. È una macchina che va a spinta. Inoltre, non hanno un forte senso civico: buttano le sigarette per terra, non rispettano sempre la privacy e l’igiene. Questo per me è stato difficile. Però ora, con l’arrivo dei turisti e degli stranieri, sto notando un forte cambiamento in meglio.
LUCA MARRUCCHI: La storia di Enzo Neri a Tbilisi non è solo il racconto di un successo imprenditoriale, ma una mappa precisa per qualsiasi PMI italiana che sogna di internazionalizzarsi. Il suo percorso ci consegna un messaggio potente e chiaro, non abbiate paura di essere, semplicemente, italiani. Il mondo non ha bisogno di un’ennesima imitazione. Ha bisogno della vostra autenticità. Come Enzo, che ha importato il guanciale e ha insegnato la vera carbonara, voi portate la vostra eccellenza. Fatelo con pazienza, con rispetto, ma con la fermezza di chi sa il valore di ciò che offre. Internazionalizzarsi non significa annacquare la propria identità per piacere a tutti. Significa costruire un’avanguardia: essere quel punto di riferimento irrinunciabile per chi, in quel mercato, cerca l’autentico Made Italy. Si parte con un “soft landing”, si investe sulla relazione, si studia la cultura locale, ma non si transige sul proprio DNA. La ricetta, in fondo, è semplice: siate così bravi nel vostro mestiere da educare il mercato, non da assecondarne le mediocri abitudini. È una scommessa che all’inizio richiede coraggio, ma che sul lungo periodo costruisce un’impresa solida, rispettata e, soprattutto, unica.

