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Il Made in Italy ha ancora prospettive sui mercati internazionali?

«Negli ultimi 15 anni hanno avuto grandi difficoltà le imprese che operavano nella fasce a più basso valore aggiunto (prodotti per la persona, per la casa). In questi settori i Paesi emergenti ci hanno messo alla frusta, potendo godere di costi del lavoro infinitamente più bassi e di normative ambientali meno severe, di tassi di cambio favorevoli, di sostegni enormi da parte degli Stati (rispetto a quelli quasi inesistenti che ci sono da noi). Tra il 2000 e il 2004, in quei difficili anni di transizione che hanno visto l’ingresso della Cina nel Wto e l’emergere di altri Paesi nuovi come il Vietnam (nel campo del tessile e delle calzature), le nuove economie ci hanno costretto a lasciare sul campo molte produzioni di basso valore aggiunto che forse avremmo potuto perdere in 10 anni invece che in 4 se fossimo stati più bravi nel difenderci, più sostenuti dall’Europa su questioni come il dumping -, ma le avremmo perse comunque. Negli ultimi anni, comunque, pur avendo perso questi segmenti a basso valore aggiunto, abbiamo preservato la fascia di media e alta qualità, non solo quella dell’altissima qualità, e i risultati si vedono perché le nostre imprese hanno grandi risultati nell’export».

È stata vista con preoccupazione l’acquisizione, da parte di gruppi stranieri, di marchi storici del Made in Italy.

«Io cerco di non farmi prendere dal nervosismo che agita molti osservatori. È vero che qualche nostro brand storico è andato all’estero, ma tali brand sono stati acquistati da società che non operano con l’atteggiamento predatorio tipico di alcune multinazionali che comprano le fabbriche per poi chiuderle. I gruppi stranieri che hanno acquistato marchi italiani tengono aperte le fabbriche e tutelano la filiera di approvvigionamento. È quello che fanno, ad esempio, i grandi gruppi francesi del lusso che puntano a valorizzare i marchi italiani e a tenere viva la filiera. Infatti non potrebbero vendere prodotti i lusso spiegando ai nuovi ricchi cinesi o russi che sono fatti in Cina, ma devono dimostrare che la produzione è ancora in Italia. Spesso c’è una maggiore attenzione da parte di questi gruppi stranieri a preservare l’integrità della filiera, rispetto ai gruppi italiani che magari hanno qualche inclinazione a delocalizzare la produzione. Il discorso è diverso, ovviamente, per le aziende più strategiche, come quelle delle telecomunicazioni».

Brunello Cucinelli, imprenditore re del Cashmere, esporta i suoi prodotti di lusso in oltre 59 paesi del mondo
Brunello Cucinelli, imprenditore re del Cashmere, esporta i suoi prodotti di lusso in oltre 59 paesi del mondo

 

C’è un ricambio generazionale, stanno sorgendo nuove realtà pronte a raccogliere l’eredità dei marchi storici?

«Per un Loro Piana che, essendo arrivato alla “taglia” massima consentita dall’impresa familiare, sente il bisogno di allearsi con un grande gruppo e di cedere l’azienda – pur rimanendo nel management -, ci sono numerosissime imprese più giovani che stanno emergendo. Basti pensare, ad esempio, al fenomeno di Brunello Cucinelli, ma anche a tanti altri marchi nuovi come Nardini, come Cruciani, che hanno imposto linee di tendenza nell’abbigliamento piuttosto che negli accessori (come nel caso dei famosi braccialetti in filati che realizza Cruciani). Questo tipo di nuove imprese sono la linfa da cui domani potrebbero nascere brand di grandi dimensioni. Ricordiamoci, d’altronde, che anche i Ferragamo, i Della Valle, lo stesso Armani sono partiti da piccole attività e poi sono cresciuti rapidamente. Brunello Cucinelli sta dimostrando che questo modello non è finito e queste piccole realtà nuove (piccole per modo di dire, visto che arrivano già a quasi 200 milioni di euro di fatturato) dimostrano anche che si può mantenere in vita la piccola e media impresa artigianale che fornisce i prodotti allo stilista, all’azienda che poi realizza il prodotto finito e lo veicola negli show room sulle grandi piazze internazionali».

Non si può vivere di sola moda, però.

«Infatti le imprese italiane si sono imposte anche in altri settori. Si tratta di un fenomeno poco noto in Italia e tra chi pensa che noi siamo ancora quelli che fanno le magliette. Siamo ormai la seconda potenza meccanica d’Europa e la terza al mondo per saldo commerciale, dopo Giappone e Germania. Abbiamo superato i tedeschi in molte produzioni. In termini di saldo commerciale oggi l’Italia è più forte della Germania in moltissime tipologie di prodotti metalmeccanici, semilavorati, dai tubi ai lavori in alluminio, alla rubinetteria-valvolame, alle macchine per imballaggio, a quelle alimentari, alla caldareria, fino ad arrivare a varie tipologie di macchine per la lavorazione di metalli utilizzate in nicchie specifiche. Questa Italia nuova, questo nuovo Made in Italy più dinamico, più fuori dagli schemi rispetto a quello tradizionale, oggi è fatto non solo da aziende medio-grandi, ma anche da tante imprese che, se non piccolissime, hanno comunque la dimensione della media impresa e che, per i canoni internazionali, sembrano micro. Molte imprese meccaniche in provincia di Varese, Brescia, Bergamo, in Piemonte, in Emilia Romagna, non arrivano ai 100 milioni di fatturato, eppure nella loro nicchia hanno la leadership».

Uno yacht della Perini Navi, esempio del Made in Italy innovativo

 

Tra le accuse mosse alle imprese italiane c’è quella di essere poco innovative.

«Chi lo dice non sa di cosa parla. L’Italia non è presente in segmenti classificati dalle statistiche internazionali come hi-tech. Non ci occupiamo di elettronica, di telecomunicazioni, non produciamo iPad o telefonini, né possediamo colossi come Volkswagen o Siemens che, da soli, spendono in ricerca e sviluppo quanto la nostra intera industria manifatturiera. Scontiamo proprio il fatto di essere presenti in settori dove misurare l’innovazione è molto complicato. Ad esempio, nella meccanica, secondo l’Eurostat, noi spendiamo in ricerca e sviluppo ufficialmente oltre un miliardo di euro, ma questo miliardo è fatto solo dalla spesa delle aziende più gradi, come l’Ima che fa macchine da imballaggio (le prime 4 imprese bolognesi di macchine per imballaggio sono più grandi delle prime 4 imprese tedesche) o la Prima Industrie di Torino che realizza macchine laser tra le più avanzate al mondo, cioè da imprese che hanno dimensioni e strutture organizzative ce le portano a mettere a bilancio in maniera molto precisa l’innovazione. Al miliardo ufficiale penso che se ne dovrebbe aggiungere un altro che non viene rilevato semplicemente perché le imprese non hanno la convenienza fiscale a far emergere le spese in R&D. D’altronde non sarebbe possibile realizzare un saldo commerciale di 60 miliardi di euro nella meccanica elettronica se non fossimo veramente innovativi in questo campo. Se dalle convenzioni internazionali un telefonino della Nokia è considerato hi-tech e uno yacht della Perini Navi medium-tech, è ovvio che veniamo accusati di essere “schiacciati” sul medium-tech, ma il 90% del nostro medium-tech è più hi-tech di quello della Cina e della Corea. Insomma, bisogna superare luoghi comuni e cliché che non ci consentono di capire la forza del nostro sistema produttivo e la capacità delle nostre imprese di fare innovazione».

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