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Anche lei condivide il giudizio negativo espresso da molti sulla recente Legge di stabilità?
«Parlarne ora è prematuro. Non l’abbiamo, infatti, vista nel suo complesso. Per ora ci sono solo relazioni tecniche di accompagnamento. Vedremo come uscirà dai passaggi parlamentari. Penso che il presidente della Repubblica sia stato molto efficace nel richiamarci a un coraggio responsabile. Da un Governo retto da una maggioranza improbabile, costituita da forze che si contrappongono molto di più di quanto non accade in altri Paesi che realizzano Grandi coalizioni, non si poteva pretendere che realizzasse una Manovra epocale che, tra l’altro, è già in gran parte scritta nei numeri che Bruxelles ci detta. Numeri impietosi per un Paese in crisi come il nostro e che non ci permettono di allocare risorse immaginarie per realizzare obiettivi che nessuno in passato ha mai realizzato».

Per i prossimi anni, dunque, dobbiamo aspettarci solo rigore e poche risorse da impiegare nella crescita, come viene rimproverato alla Manovra presentata dal Governo?

«La Legge di stabilità non è scritta sulla pietra. Non possiamo derogare dall’impegno di restare sotto il tetto del 3% del rapporto Deficit/Pil, né da quello di raggiungere in futuro con il fiscal compact il pareggio di bilancio strutturale. Ma, dopo aver dimostrato che siamo i più bravi, insieme alla Germania, nel tenere in ordine i conti pubblici, magari durante il semestre italiano di presidenza Ue, potremmo chiedere di rimettere in discussione qualche progetto di spesa, oppure di escludere proprio la ricerca e l’innovazione dal perimetro dei vincoli di sesa del 3%, o, ancora, di poter usare la golden rule per fare investimenti strutturali senza che rientrino nel calcolo del debito. Non è che, insomma, questa Legge di stabilità ci condizionerà per i prossimi 50 anni. Si tratta di un primo schema che potrebbe essere implementato in futuro. Non possiamo fare a meno di aprovarla, però, e di far sì che sia più seria possibile. Solo così, infatti, riacquisteremo la credibilità necessaria agli occhi delle istituzioni europee e dei mercati. Più che della Legge di stabilità, comunque, abbiamo bisogno di stabilità tout court, senza mettere in discussione il Governo».

Il presidente del Consiglio Enrico Letta e il ministro Saccomanni illustrano la Legge di stabilità

 

Ritiene che nei prossimi mesi questo Paese potrebbe ricominciare a crescere in maniera sostenuta?

«Credo che nessun Paese europeo, tanto meno gli Stati Uniti (dove litigano per concedere uno sforamento a un tetto che non è il 3% come in Europa, ma il 6%), potranno crescere in maniera apprezzabile. Non ci sono le condizioni. La stessa Germania, che è considerata il Paese più competitivo del mondo, l’anno prossimo crescerà dello zero virgola. L’Italia ha di fronte a sé un sentiero molto difficile. Se l’anno prossimo ci andrà bene avremo un po’ di rimbalzo e forse potremo avvicinarci a una crescita dell’1%. Ma una volta che si è rimbalzati dal fondo, come ha fatto la Germania nel 2010, poi la crescita si ferma perché non ci sono le condizioni di fondo per crescere. L’export non basta, bisogna saperlo. Ci vuole anche la domanda interna, ma con tutto questo deleveraging pubblico e privato imposto oggi alle famiglie, agli Stati, alle banche, è impossibile immaginare che nei prossimi anni si potrà crescere del 2%».

In effetti l’Italia cresceva meno di altri Paesi, anche quando non c’era la crisi.

«Alcuni Paesi negli anni 2000 hanno avuto una crescita del 2-3% perché si stavano rovinando, come l’Irlanda, la Grecia e la Spagna. Tutti Paesi che hanno portato i libri in Tribunale. Noi crescevamo poco perché avevamo fatto talmente tanti debiti negli anni 90 che già agli inizi del 2000 eravamo impegnati ad abbassarli. Dovendo produrre ogni anno una mole di avanzo primario e vista l’incapacità dello Stato di ridurre la spese, gli avanzi primari venivano conseguiti con le tasse. Come del resto avviene anche oggi. Da questo punto di vista dobbiamo sperare che la missione di Cottarelli vada a buon fine e che il Governo Letta abbia sufficiente autorevolezza per dirgli di andare avanti senza guardare in faccia nessuno. Se la missione per la spending review andasse a buon fine – e se l’Europa ci facesse qualche concessione -, si potrebbero dedicare maggiori risorse per tagli fiscali e per finanziare interventi più attivi per la crescita, come quelli indicati dalla Confindustria e dai sindacati sul fronte del cuneo fiscale».

Forse in Europa, però, si dovrebbe smettere di insistere con l’austerità.

«Per convincere di questo l’Europa, in primis i tedeschi, dobbiamo dimostrare con i fatti d poter ottenere dei risultati. Possiamo spiegargli che abbiamo fatto il doppio dell’avanzo primario statale che hanno fatto loro negli ultimi 20 anni. Possiamo fargli vedere che “abbiamo fatto i compiti”, mentre la Spagna forse quest’anno chiuderà con un rapporto Deficit/Pil al7-8% e la Franca, che doveva fare il 3,9%, forse chiuderà al 4,5%. Possiamo dimostrargli che negli ultimi 4 anni abbiamo fatto la quinta crescita del debito, mentre la più alta l’ha fatta la Francia, seguita da Inghilterra, Germania e Spagna (un Paese che ha 20 milioni di abitanti in meno rispetto all’Italia). Se riuscissimo a spiegare tutto questo, l’Europa, con l’aiuto e non con il contrasto della Germania, potrebbe concederci più ampi margini di manovra. Ma non possiamo pretendere di chiedere l’abbandono del rigore senza aver dimostrato di essere capaci di perseguirlo. Da questo punto, il Governo Monti prima e quello Letta dopo qualcosa hanno fatto. Qualcosa aveva fatto lo stesso ministro Tremonti, che in fondo operava come un soggetto estraneo a una maggioranza che nell’aprile del 2011 voleva realizzare un piano keynesiano da 50-60 miliardi di euro per rilanciare una crescita che, peraltro, in quel momento c’era anche se solo dello 0,8%. Soltanto aver immaginato quel piano ci ha fatto perdere credibilità davanti ai mercati. Aver tenuto i conti in ordine dal 2008 al 2012 è una cosa importante e lo si vedrà sempre di più man mano che gli altri Paesi non riusciranno a farlo, aumentando la nostra credibilità a Bruxelles e a Berlino. I tedeschi vogliono il rigore, ma se capiranno che stanno danneggiando in maniera insensata un importante Paese cliente con l’Italia forse cambieranno idea. Se faranno crollare i consumi, infatti, a chi venderanno le loro auto di lusso? L’Europa è un insieme di bacini comunicanti e la stessa Germania non può perseguire il rigore a senso unico, ma deve poter avere fiducia nei confronti dell’Italia».

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