CGIA: chi vuole l’autonomia? Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia perché versano più di quanto ricevono dallo Stato

 CGIA: chi vuole l’autonomia? Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia perché versano più di quanto ricevono dallo Stato

Sebbene sia molto complesso misurarlo, anche perché esistono diverse metodologie per calcolarlo, gli ultimi dati disponibili sul “residuo fiscale” evidenziano come nel rapporto dare-avere tra lo Stato centrale e i territori la gran parte delle regioni del Nord presentino un valore negativo. In altri termini, “devolvono” in solidarietà agli altri territori e al bilancio pubblico più di quanto ricevono dal centro.

Considerando le tre ipotesi elaborate dalla Banca d’Italia, in quella meno “onerosa” economicamente per le regioni virtuose emerge che, nel 2019, ciascun abitante di Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia – vale a dire le Regioni che hanno già firmato un patto con l’Esecutivo per ottenere l’autonomia differenziata – ha “alimentato” le casse pubbliche e il resto del Paese rispettivamente con 2.680 euro, 2.811 euro e 5.090 euro.

Secondo l’Ufficio studi della CGIA, l’esistenza di un residuo fiscale eccessivamente negativo costituisce una delle motivazioni alla base della richiesta di autonomia differenziata delle tre amministrazioni regionali richiamate più sopra. Anche se con sfaccettature diverse, tutte, comunque, in linea di principio sono consapevoli che il centralismo statale abbia accentuato le disparità tra i territori.

Tornando ai dati sul “residuo fiscale”, le regioni del Sud presentano, invece, un risultato positivo; essendo maggiormente in difficoltà economica rispetto al resto del Paese, i flussi finanziari che ricevono sono superiori alle risorse economiche che “versano” allo Stato centrale. La Campania, ad esempio, sempre nel 2019 ha registrato un “saldo” pro capite pari a +1.380 euro, la Puglia +2.440 euro, la Sicilia +2.989 euro e la Calabria +3.085 euro.

Perché  all’autonomia

Lo scontro politico sul tema dell’autonomia è stato, e lo sarà anche nei prossimi mesi, molto acceso. Sia chiaro: questa riforma deve coniugare efficienza, solidarietà e responsabilità. Non deve togliere nulla a nessuno, ci mancherebbe. Ma deve consentire, a chi lo chiede, di gestire a minor costo per la collettività un servizio attualmente erogato dallo Stato centrale, avvicinando i centri di spesa ai cittadini, nel rispetto del principio “vedo, pago e voto”. Dopo l’approvazione del disegno di legge avvenuta giovedì scorso, ora si avvia la fase di messa a punto della riforma. Bisognerà definire i “Livelli essenziali di prestazione” (Lep), l’istituzione di un fondo perequativo a sostegno dei territori più in difficoltà e dovrà essere rafforzata la centralità del Parlamento e della Conferenza Stato-Regioni-Enti locali nella definizione degli aspetti appena richiamati. Altresì, alcune delle 23 materie, così come ha sottolineato nelle settimane scorse il ministro Calderoli, verranno “spacchettate”. Con tutta probabilità, lo Stato centrale manterrà il potere legislativo su energia, grandi reti infrastrutturali e relazioni internazionali. Detto ciò, nel rispetto di quanto è previsto dalla Costituzione italiana, i territori che chiedono di gestire in autonomia nuove funzioni e competenze devono essere messi nelle condizioni di farlo. Altrimenti si è contro la Carta costituzionale.

Alcune riflessioni sulla sanità

Sebbene il Fondo sanitario nazionale destinato alle Regioni ammonti a poco meno di 130 miliardi di euro all’anno, da quasi 25 anni la sanità è gestita amministrativamente e finanziariamente da queste ultime. Va altresì segnalato che le differenze regionali in termini di qualità e quantità dei servizi resi alla cittadinanza sono molto evidenti, prova ne sia che ogni anno assistiamo allo “scandalo” per cui 800 mila cittadini meridionali sono costretti a “trasferirsi” nel Centro-Nord per sottoporsi a cure, terapie e interventi chirurgici che non sono in grado di ottenere dalle aziende sanitarie del Sud.

Pertanto, la tesi che sostengono coloro che avversano la riforma approvata l’altro ieri dal Consiglio dei Ministri è la seguente: come è già avvenuto nella sanità, nei prossimi anni con la riforma sull’autonomia i divari territoriali tra Nord e Sud sono destinati ad aumentare.

Questa ipotesi è verosimile? Ancorché non sia per nulla facile dare una risposta certa, proviamo a elaborarla ragionando per paradosso. Chiediamoci: se, oggi, la sanità fosse gestita “centralmente” (cioè a livello ministeriale), le cose andrebbero meglio e l’efficienza del servizio presente al Sud sarebbe allineata a quello del Centro Nord?

Obiettivamente crediamo di no. Anzi, probabilmente avremmo un “arretramento” del servizio anche in quei territori nei quali oggi è elevato, “condannando” quelle centinaia e centinaia di migliaia di persone del Sud che oggi risalgono la penisola per curarsi, a non disporre di nessuna altra alternativa (gettando, molto probabilmente, nella “disperazione” altrettanti cittadini del Nord). A nostro avviso, pertanto, il problema non sono solo le risorse, oggi sicuramente meno importanti di un tempo, ma, soprattutto, una incapacità e spesso una mala gestio altrettanto diffusa che, soprattutto nei decenni passati, hanno caratterizzato la politica sanitaria e non della classe dirigente meridionale.

Una sanità gestita localmente ha reagito meglio al Covid

A differenza di quanto affermano molti commentatori, grazie alla “regionalizzazione” della sanità, l’Ufficio studi della CGIA ritiene che, in linea di massima, gli effetti della pandemia siano stati contrastati più efficacemente. La prima ondata, quella più drammatica, ha colpito quasi esclusivamente le regioni del Nord che, come sappiamo, dispongono di un sistema sanitario con livelli di performance superiori al resto del Paese. Ebbene, nonostante gli errori commessi, l’impreparazione iniziale e le responsabilità emerse nelle prime settimane sia nelle strutture pubbliche che in quelle private, le aziende sanitarie del Nord sono riuscite nel giro di qualche mese a mettere a punto delle procedure, dei protocolli e delle modalità di contrasto al Covid che sono state assunte come best practice persino all’estero, consentendo anche alle ASL del Mezzogiorno di beneficiarne. Se, invece, il Coronavirus si fosse diffuso dapprima nelle regioni del Sud, molto probabilmente, le cose sarebbero andate diversamente; verosimilmente molto peggio di quanto si è realmente verificato. Ovviamente, non abbiamo alcuna riprova, ma la sensazione che sarebbe finita così è molto diffusa. Più in generale, comunque, molti potrebbero obbiettare che se il Sud avesse gli stessi livelli di prestazione erogati al Nord non ci sarebbero problemi. Tuttavia, se non riusciamo ad accorciare le distanze tra le aree geografiche ciò è dovuto, in particolar modo, al fatto che, una buona parte della Pubblica amministrazione meridionale (come la giustizia amministrativa, la sanità, la scuola, gli enti locali, etc.), funziona poco e male. La classe dirigente meridionale ha dimostrato dei limiti spaventosi, visto che, soprattutto in passato, veniva selezionata non sulla base delle sue capacità, ma nel creare le condizioni per intercettare le risorse pubbliche. E non è nemmeno sostenibile la tesi di chi afferma che il ritardo è dovuto all’insufficiente numero di trasferimenti erogati. A differenza di qualche decennio fa, i trasferimenti dello Stato sono diminuiti ovunque, ma il Sud, proprio perché più in difficoltà, continua ancora adesso a riceverne in misura maggiore rispetto a quelli erogati al Nord. I dati della Ragioneria Generale dello Stato lo dimostrano inequivocabilmente3. La verità è che, soprattutto nel passato, non li ha spesi con parsimonia e adesso ne paga le conseguenze o, come sta emergendo in questi ultimi mesi con l’attuazione del PNRR, non è in grado addirittura di spenderli.

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