Lazzarotto (Warrant Group): «Finanziare una startup? Oggi è ancora più facile»

Francesco Lazzarotto, New Project Development Manager di Warrant Group

Tra l’ecosistema delle startup statunitensi e quello europeo, soprattutto italiano, il gap è evidente. A cosa è dovuto?
«Innanzitutto al fatto che il nostro sistema formativo educa poco all’imprenditorialità. La propensione dei cittadini europei al lavoro autonomo, imprenditoriale, rispetto a quella dei cittadini cinesi o americani è sensibilmente più bassa. Nel 2009 in Europa la propensione al lavoro autonomo e imprenditoriale era al 45%, nel 2012 questa percentuale è scesa al 37%, mentre nello stesso anno in Usa e in Cina la percentuale era rispettivamente al 51 e al 56%. Tale gap si spiega col fatto che negli altri Paesi esiste un’educazione all’imprenditorialità, con risultati evidenti. Negli Stati Uniti, ad esempio, tra il 15 e il 20% degli studenti che partecipano (anche ai gradi inferiori di istruzione) a programmi di mini-impresa aprono poi un’impresa. L’Unione europea è corsa ai ripari e già con la revisione dello Small Business Act e poi con il Piano d’azione imprenditorialità 2020 ha stabilito che, sin dai primi gradi di istruzione, l’educazione all’imprenditorialità è fondamentale. Addirittura si è deciso che, entro il 2015, ogni Stato membro dovrebbe attivare a tutti i livelli programmi formativi all’imprenditorialità».
Si dice anche che gli europei sarebbero meno disposti ad accettare il cosiddetto “rischio imprenditoriale”.
«In Europa, e segnatamente in Italia, fallire significa essere crocefisso socialmente. Chi fallisce in Italia, sia che si tratti di un fallimento “onesto”, sia che si tratti di un fallimento “disonesto”, viene interdetto dai pubblici uffici, non può fare un’altra impresa per un po’ di tempo ecc. Negli Stati Uniti, invece, chi ha fallito “onestamente” – i fallimenti disonesti sono puniti molto più severamente che in Italia -, perché stretto dalla morsa creditizia o dai problemi finanziari legati ai mancati pagamenti dei fornitori, ha la possibilità di fare una nuova impresa e non viene visto socialmente come una persona da emarginare. Tanta fiducia è ripagata: chi fa impresa per la seconda volta, infatti, dura di più, almeno il doppio, rispetto a chi la fa per la prima volta. Imparare dai propri errori, dunque, è un vantaggio».
Anche se lo startupper accettasse il rischio di fare impresa, però, non si troverebbe a operare in un ambiente particolarmente favorevole a chi fa impresa.
«La scarsa propensione dei cittadini europei al lavoro autonomo e all’imprenditorialità deriva dalla percezione che essi hanno delle difficoltà ad aprire una nuova impresa, della burocrazia, dell’onere normativo: i tre quarti dei cittadini europei ritengono che sia troppo difficoltoso avviare un’impresa a causa delle complessità amministrative. Con la revisione dello Small Business Act e con il Piano d’azione imprenditorialità 2020 l’Unione europea ha voluto indicare che per riportare l’Europa sui binari della crescita e recuperare i livelli occupazionali di qualche anno fa c’è bisogno di un maggior numero di imprenditori. Una volta raggiunta la piena consapevolezza che la creazione d’impresa genera ricchezza e posti di lavoro, sono stati analizzati i problemi strutturali e sono stati predisposti gli interventi atti a superarli».
Anche il nostro Paese, che pure ha generato molte imprese, sconta un gap di imprenditorialità rispetto all’economia statunitense. Qual è la situazione oggi?
«In Italia la situazione è sempre molto più complessa rispetto a quanto succede negli altri Paesi europei. Gli imprenditori “classici”, che stanno facendo ancora i conti con il ricambio generazionale, si trovano i fronte a un’opportunità straordinaria: saldare la tradizionale cultura manifatturiera, quella per la quale fare impresa significa “costruire pezzi di ferro”, con la “nuova guardia” per la quale fare impresa significa avere una buona idea, lavorare davanti allo schermo di un computer collegandosi al mondo tramite il Web. Inizialmente questi due mondi si sono scontrati, ma c’è un filone di continuità che comincia a emergere. Dai nostri Politecnici escono ingegneri molto qualificati e viene prodotto tanta ricerca legata al cosiddetto manifatturiero avanzato: robotica, nuovi materiali, biotecnologie, bioingegneria, nanotecnologie. Il nostro tessuto industriale ha la possibilità straordinaria di allevare realtà imprenditoriali che si basano sull’applicazione di tecnologie trasversali e abilitanti anche per i settori tradizionali in cui le nostre imprese operano. Le startup non sono soltanto Web-startup, ma possono lavorare sui nuovi materiali, sulle biotecnologie ecc., incontrandosi e trovando un filone importante di sviluppo nell’industria tradizionale italiana e nei sistemi locali di ricerca (università, centri di ricerca)».
Negli ultimi tempi sembra di essere di fronte a una svolta. Si è registrato addirittura un boom di finanziamenti rivolti alle startup. Cosa è cambiato?
«Innanzitutto è cambiato l’approccio delle politiche di intervento – regionali, nazionali ed europee – relative al settennato 2014-2020. L’approccio è cambiato nel senso che gli strumenti che ieri agivano nella fase di sviluppo della nuova impresa, oggi fanno un passo indietro e agiscono già nella fase di gestazione dell’idea d’impresa, nata magari da una persona fisica, da un ricercatore, da un soggetto che non è ancora un’impresa. Sono stati definiti strumenti specifici che intervengono dalla fase dell’idea fino alla fase produttiva, all’espansione, all’internazionalizzazione. Prima si partiva dall’avvio dell’impresa, poi si passava alla fase di ricerca e sviluppo, alla fase produttiva, all’internazionalizzazione; oggi si aggiunge un pezzo ulteriore che è l’idea. Questa impostazione – ed è il secondo importante cambiamento rispetto alla precedente programmazione – viene ripresa anche a livello dei fondi europei, in particolare quelli relativi a ricerca, sviluppo e innovazione. Nei programmi tematici, come Horizon 2020, il più importante, o nel programma Cosme per la competitività delle piccole e medie imprese, si valorizza il partenariato internazionale (in un progetto devono essere presenti almeno tre soggetti indipendenti di tre Stati membri), ma ci sono anche call specifiche attraverso le quali la Commissione europea destina fondi alle singole imprese. Una singola impresa, dunque, può partecipare a una call, nelle diverse fasi in cui può trovarsi: studi di fattibilità, ricerca e prototipazione, industrializzazione».
Il mercato del capitale di rischio è sempre stato poco sviluppato nel nostro Paese. Sta cambiando qualcosa anche in questo senso?
«La novità è che il pubblico si interessa di equity, quindi si assume in parte il rischio d’impresa. La nuova politica di intervento europea dei fondi strutturali – quindi delle singole regioni che gestiscono il co-finanziamento di fondi europei, nazionali e regionali – prevede strumenti finanziari innovativi di equity – uno di questi è il fondo Ingenium che è a partecipazione pubblico-privata – che intervengono in startup tecnologiche, con un grado di rischio molto elevato, ma anche la possibilità di avere un ritorno dall’equity molto interessante. Il pubblico con questi fondi di equity interviene in maniera diversa rispetto all’investitore puro. L’investitore puro, infatti, ha un orizzonte temporale di breve-medio periodo in cui rientrare dei capitali investiti, mentre i fondi di equity pubblici adottano una logica più di medio-lungo periodo e quindi intervengo in quelle operazioni che hanno un orizzonte non di 12 mesi – coperte dagli investitori puri -, ma di oltre 36 mesi».
Anche il crowdfunding lascia intravedere grandi potenzialità.
«Il crowdfunding – anche grazie al regolamento, credo unico al mondo, della Consob – permette alle startup in fase feed di collocare sul mercato il proprio capitale sociale in maniera frammentata, distribuita. Le operazioni di collocamento sul mercato assolutamente nuovo del crowdfunding possono andare da diverse decine di migliaia di euro fino ai 5 milioni di euro. Per il momento i fondi raccolti sono appannaggio delle cosiddette startup innovative. La vera scommessa sarà quella di allargare il crowdfunding a tutto il sistema delle startup».
Dopo anni di crisi e di austerity, l’Europa sarà ancora in grado di finanziare adeguatamente l’ecosistema delle startup?
«Assolutamente sì. Le risorse sono più scarse rispetto al passato, ma sono concentrate in maniera intelligente e finalizzate, quindi, paradossalmente, le opportunità per le startup sono cresciute. La più grande opportunità per l’ecosistema delle startup italiane si gioca a livello regionale. Nella fase di definizione dei vari programmi operativi per l’utilizzo dei fondi della politica di coesione è stato definito, per ogni regione, un programma di intervento specifico per le startup per tutte le fasi di cui abbiamo parlato prima: dall’idea all’internazionalizzazione. Nel momento in cui i programmi operativi regionali, che in questo momento sono in fase di concertazione, troveranno una chiara definizione nell’autunno del 2014 (le prime misure le vederemo a partire dall’inizio del 2015), le startup di ogni regione avranno a disposizione – all’interno delle specializzazioni tecnologiche e settoriali sulle quali ciascuna regione ha deciso di puntare – strumenti dedicati cadenzati mediamente ogni semestre, ogni 10 mesi. Tali strumenti saranno diversi a seconda della fase in cui si trova l’azienda: se la startup sarà nella fase dell’idea, durante la quale dovrà finanziare lo studio di mercato, il business model, il business plan, avrà a disposizione voucher o grant a fondo perduto; se sarà nella fase di avvio, durante la quale dovrà finanziare oneri di costituzione, il primo insediamento, temporary manager, investimenti in marketing e pubblicità, potrà disporre di grant a fondo perduto, finanziamenti agevolati, fondi di capitale di rischio, strumenti di garanzia di accesso al credito; lo stesso varrà per le fasi di ricerca e sviluppo, per la fase produttiva e quella di internazionalizzazione. Le startup italiane avranno a disposizione 42 miliardi di euro, i fondi dedicati alla politica di coesione, di cui 11 miliardi saranno gestiti direttamente dallo Stato con i programmi operativi nazionali e i restanti saranno gestiti direttamente dalle singole regioni con i propri programmi operativi regionali».
Il primo contesto in cui le startup troveranno assistenza, dunque, sarà quello delle regioni.
«Esatto. Presso le regioni le startup troveranno gli strumenti necessari, purché ovviamente l’idea d’impresa sia contestualizzata nei sistemi locali sui quali puntano le regioni. Le faccio un esempio. La Regione Emilia-Romagna nella sua strategia di specializzazione intelligente ha deciso che i sistemi di interesse strategico sono l’agrifood, l’edilizia, la meccatronica e la motoristica, mentre i sistemi a elevato potenziale di crescita sono l’industria della salute e le industrie culturali e creative. Le misure legate al sostegno alla nuova imprenditoria, dunque, dovranno collocarsi all’interno di questa specializzazione territoriale».
Gli imprenditori sono adeguatamente informati sugli strumenti che hanno a disposizione?
«Ci sono tante informazioni, ma circolano malissimo. Il grado di consapevolezza dei giovani imprenditori rispetto agli strumenti che hanno a disposizione è pressoché nullo. Manca un’informazione omogenea e un hub informativo a livello nazionale. A livello territoriale ci sono esperienze positive come quella dell’Emilia-Romagna che ha realizzato un portale dedicato alle startup che rappresenta un hub regionale rispetto a tutte le politiche di intervento comunali, provinciali, regionali e nazionali rivolte all’ecosistema delle startup. Tale esperienza andrebbe replicata con un hub nazionale. Avere 20 hub regionali, infatti, sarebbe importante, ma realizzare un unico hub nazionale, al servizio degli hub regionali, sarebbe ancora meglio. In questo modo si creerebbe un one-stop-point per trovare tutte le opportunità di finanziamento di un’idea imprenditoriale».
In che modo l’imprenditore dovrebbe approcciare il mondo della finanza agevolata?
«Basta digitare “finanziamenti startup” su Google e salta fuori un mondo – che io reputo completamente deviato – di soggetti non preparati, non competenti, che offrono servizi generici e, soprattutto, pongono la finanza agevolata come il punto di partenza di un progetto imprenditoriale. È meglio, invece, che un progetto parta da una buona idea, dalla forte convinzione e dalla passione di chi ce l’ha in testa. Tale idea va poi concretizzata – anche faticosamente – in un business model e in un business plan non teorica, ma pratico. Sulla base di questi, se il progetto sta in piedi sulle proprie gambe, il primo soggetto che si deve convincere è un investitore e solo in seguito, eventualmente, un ente che conceda un grant, un finanziamento agevolato».

Direttore responsabile de Il Giornale delle PMI
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