Fisco: Unimpresa, mina da 12 miliardi sulle PMI con stretta a interessi passivi prestiti

 Fisco: Unimpresa, mina da 12 miliardi sulle PMI con stretta a interessi passivi prestiti

Il giro di vite normativo sugli interessi passivi pagati dalle aziende alle banche causa la cancellazione di quasi 12 miliardi di euro di sgravi fiscali relativi all’Ires, l’imposta sul reddito delle società. L’enorme danno – che interessa principalmente le piccole, medie imprese italiane – trae origine dalle nuove regole relative alla deducibilità fiscale degli interessi riconosciuti dalle PMI agli istituti di credito, che sono diventati “meno deducibili” rispetto al passato. È quanto segnala il Centro studi di Unimpresa, secondo cui a partire dal 2019, con l’entrata in vigore di una direttiva dell’Unione europea recepita in Italia “senza filtro” e con eccessiva severità rispetto ad altri paesi membri, sono stati introdotti alcuni, rigidi paletti sulla deducibilità degli interessi passivi: in particolare gli oneri finanziari delle imprese possono essere “scaricati” al 100% fino al raggiungimento del totale degli interessi attivi e, oltre tale quota, solo in ragione del 30% del risultato operativo lordo (rol). «In altri paesi europei, la direttiva Ue, che lascia taluni margini ai governi nazionali, è stata ammorbidita. Il governo italiano, nel 2019, allora guidato da Giuseppe Conte, non fece nulla per consentire un’applicazione meno rigida di queste regole nel nostro Paese. Il risultato è che, adesso, in un momento complesso e difficile, viene tolta liquidità alla PMI. Auspichiamo che l’esecutivo di Mario Draghi, magari con la delega fiscale, possa ingranare la retromarcia e allineare le nostre regole a quelle di Francia, Germania e Belgio che sono decisamente più morbide e favorevoli per le imprese» commenta il vicepresidente di Unimpresa, Giuseppe Spadafora.

Secondo il Centro studi di Unimpresa, stando agli ultimi dati disponibili dell’amministrazione finanziaria, il totale degli interessi passivi deducibili dalla base imponibile Ires ammonta a 68,2 miliardi. Di questi, circa 42,8 miliardi, però, sono risultati non scaricabili: ne consegue che quasi 12 miliardi di euro è la minore Ires che le aziende italiane non potranno più recuperare nei prossimi anni. Rispetto al totale di 68,2 miliardi di interessi passivi risultanti dalle dichiarazioni dei redditi 2020 relativa all’anno di imposta 2019, 38,4 miliardi corrispondevano a oneri degli anni precedenti, mentre 29,8 miliardi erano del 2019.

La “mina” fiscale potrebbe crescere ulteriormente considerando che, con la pandemia e in particolare nel primo anno di “Covid”, sono sensibilmente aumentati i prestiti delle banche alle aziende. Alla fine del 2019, il totale dello stock di prestiti bancari alle aziende aveva raggiunto quota 631,2 miliardi, cifra poi salita a 667,9 miliardi al termine del 2020 e poi leggermente calata a 663,1 miliardi a fine 2021. Il paracadute di Stato sui finanziamenti ha fatto aumentare le erogazioni alle imprese di 36,7 miliardi nel 2020: la spinta del credito bancario, favorita appunto dalle garanzie statali, ha fatto salire significativamente anche gli interessi pagati dalle PMI agli istituti, ma le regole tributarie limitano la possibilità di scaricare questo costo delle aziende, con quelle italiane assai penalizzate.

La questione, nel dettaglio, riguarda la direttiva europea 1164 del 2016 che era stata varata con l’obiettivo di evitare comportamenti elusivi da parte delle aziende: l’architettura delle norme Ue ha lasciato ampi spazi di manovra agli Stati membri. Tuttavia, l’Italia non ha voluto approfittare della flessibilità concessa dall’Ue. In particolare, le norme Ue permettevano ai governi nazionali la possibilità di far “scaricare” gli oneri finanziari al 100% alle imprese che non appartengono a gruppi e, allo stesso tempo, di non porre limiti quando gli interessi da dedurre fiscalmente non superano i 3 milioni di euro: due cuscinetti che avrebbero consentito di sostenere, in Italia, le realtà aziendali prevalenti, cioè le PMI. Queste due agevolazioni sono state inserite, invece, in Francia, Germania e Belgio nei rispettivi decreti attuativi della direttiva Ue. «Nel quadro europeo, siamo di fronte a una disparità di trattamento ingiustificata, figlia di una scarsa attenzione sia del regolatore europeo sia del governo italiano, il cui comportamento non trova una giustificazione plausibile» aggiunge il vicepresidente di Unimpresa.

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