Galassi (presidente di A.P.I.): “Non c’è più tempo da perdere. L’impresa ha bisogno di un chiaro indirizzo di politica industriale”

Una riflessione sul nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, recentemente introdotto, è stata il punto di partenza per affrontare, insieme a Paolo Galassi, presidente di A.P.I. – Associazione delle Piccole Medie Industrie, alcuni dei nodi fondamentali che il nostro Paese e il sistema delle imprese si troveranno ad affrontare in autunno, alla vigilia di una manovra di Bilancio che si preannuncia estremamente complicata.
Presidente Galassi, per quanto riguarda il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza recentemente approvato, che cosa cambierà in sostanza per le nostre PMI?
La nuova riforma fallimentare era assolutamente necessaria, ma come sempre ci sono luci e ombre. La precedente normativa, infatti, risaliva al 1942 e, nel frattempo, molte cose erano cambiate. È positivo che tra le principali novità introdotte vi sia l’obbligo per l’imprenditore di adottare un sistema organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni aziendali, che permetta di rilevare tempestivamente eventuali segnali di malessere e di impostare, contestualmente, una strategia per riportare un equilibrio economico-finanziario in azienda. Inoltre, vi è l’obbligo alla nomina dell’organo di controllo o di un revisore, per le Srl e le Cooperative, qualora per due esercizi consecutivi vi fosse il superamento di uno dei tre limiti previsti dall’art. 378: 4 milioni di attivo di stato patrimoniale, 4 milioni di ricavi, 20 dipendenti occupati in media durante l’esercizio.
Il suo giudizio sulla riforma, dunque, è positivo?
Si tratta senza dubbio di una misura necessaria ma, ancora una volta, non calibrata rispetto al tessuto imprenditoriale, composto prevalentemente da piccole e medie imprese. Sono, infatti, diversi gli aspetti del decreto che destano preoccupazione tra gli imprenditori, come ad esempio gli oneri aggiuntivi per il pagamento dell’organo di controllo o del revisore contabile, per l’implementazione di software gestionali e il reperimento sul mercato di figure professionali preparate, al fine di essere compliance con le attuali disposizioni. Inizialmente i parametri sopra citati erano più restrittivi. Come A.P.I. siamo intervenuti più volte ai tavoli istituzionali e sulla stampa per chiedere la revisione della legge, affinché non diventasse l’ennesima barriera al fare impresa, aggiungendo nuovi costi e adempimenti, non sostenibili per molte delle micro imprese del territorio. Il primo risultato è stato raggiunto, ma la nostra azione di tutela prosegue, affinché le PMI non debbano assistere impotenti all’ennesima legge volta a complicare anziché semplificare la gestione.
Oltre alle norme contenute nella riforma, di cosa avrebbero bisogno le aziende?
Oltre a regole che rendano più veloce il recupero dei crediti vantati nei confronti dello Stato e la concessione di credito da parte delle banche, le imprese hanno bisogno di un sostegno alla crescita e non di un controllore che ne segnali lo stato di difficoltà all’OCRI con il rischio di comprometterne definitivamente la gestione. Molte aziende, infatti, ad oggi, non hanno a disposizione la figura di un CFO preparato all’interno, in grado di analizzare e visualizzare i potenziali rischi. È importante, soprattutto in questo momento di grande confusione, che le Istituzioni siano presenti, che lavorino insieme a noi associazioni per ascoltare e comprendere le difficoltà degli imprenditori. Per agevolarne le attività, soprattutto quando introducono nuovi obblighi al fare impresa.
In tal senso, A.P.I. continuerà a essere attiva sul territorio lombardo, organizzando convegni e corsi di formazione e aggiornamento, ponendosi come punto di riferimento per le imprese associate che necessitano di supporto.
Con tutti i suoi limiti, pensa che la riforma possa anche contribuire a migliorare la governance delle nostre imprese?
Il nostro auspicio è che le piccole e medie industrie possano cogliere da questa normativa anche delle preziose opportunità, per migliorare sotto l’aspetto amministrativo/gestionale e previsionale, al fine di puntare a una crescita più solida su un mercato sempre più globale e competitivo. La continuità ovviamente è una priorità per le imprese stesse, che hanno a cuore il futuro dei propri collaboratori. Le imprese per essere competitive, però, hanno la necessità che il Governo, sia a livello nazionale che locale, investa in una politica industriale, fatta di azioni concrete e fattive.
Come lei sa, molte decisioni ormai vengono prese a livello europeo. Qual è il suo giudizio sull’Europa di oggi?
Noi siamo europeisti, ma vogliamo un’Europa diversa, in cui ci siano regole uguali per tutti. Non si possono togliere le frontiere, imporre una valuta unica e non avere regole finanziarie od ordinamenti giuridici comuni. È assurdo, ad esempio, che la gestione dell’Iva non sia uguale in tutti i Paese o che, per lo stesso reato, si sia condannati diversamente in Germania o in Italia. È inaccettabile che gli imprenditori italiani spostino la produzione (e i brevetti) nei Paesi dell’Est, che da poco hanno l’euro e un costo del lavoro che è un terzo del nostro, per poi vendere i propri prodotti ai Paesi ricchi come la Germania o la Francia. Questo può capitare perché non c’è un cuneo fiscale europeo. Non si deve essere “contro” l’Europa, ma non si può neanche accettare che sia solo un sistema finanziario che assicura un euro forte sul dollaro che agevola i Paesi che esportano fuori dal continente. Bisogna rendere più omogeneo ed uniforme il sistema europeo.
Torniamo all’Italia dunque. Quali le misure più urgenti per rivitalizzare un Paese a crescita zero?
Dopo gli anni della crisi, le aziende che dovevano chiudere hanno chiuso, quelle che hanno resistito oggi sono in grado di affrontare l’Industria 4.0 e gli imprenditori hanno acquisito – e proseguono nel farlo – le competenze necessarie per garantire uno sviluppo alla propria azienda. I sistemi fiscale e normativo devono rendere conveniente investire nell’impresa: i denari devono rimanere in azienda, come succede in tutto il mondo. Se le imprese hanno fatto la loro parte, un governo che ha a cuore lo sviluppo del Paese non può non intervenire per ridurre il cuneo fiscale, avvicinandolo agli standard europei. Abbassando il cuneo fiscale si avrebbero benefici per le aziende e per i lavoratori.
Solo così, infatti, potrà riprendere a crescere il mercato interno, il solo, insieme a quello europeo, sul quale possono prosperare le nostre piccole e medie imprese.
Non sarà facile trovare le risorse per il taglio del cuneo fiscale.
Mi immagino già cosa risponderebbero i politici: il taglio non si può fare perché abbiamo bisogno di risorse per far funzionare la macchina statale. Io gli risponderei di organizzarsi per far sì che la macchina statale funzioni davvero, che si chiami Regione, Comune o Provincia. A proposito, avevano detto che avrebbero chiuso le Province e poi non l’hanno fatto: è stato come chiudere il Consiglio di amministrazione di un’azienda, ma lasciando i dipendenti al loro posto senza compiti da svolgere. Un altro esempio di cattiva gestione della cosa pubblica: attuare solo parzialmente il processo di regionalizzazione, se non si hanno le risorse economiche diventa impossibile operare. Come accaduto per una parte della rete stradale, con conseguente passaggio delle funzioni delegate all’Anas ad altri Enti territoriali. Il risultato di tale operazione è stato che oggi le strade sono mal tenute e i costi del personale sono rimasti gli stessi.
In questo momento in cui cominciano a delinearsi le proposte rivolte al mondo delle imprese destinate a confluire nella prossima legge di Bilancio, oltre a una maggiore attenzione nella gestione della cosa pubblica che elimini sprechi e inefficienze, cosa chiede al governo e, in generale, al mondo della politica?
Da imprenditore sono abituato a ragionare su tempi medio-lunghi, 5-10 anni (per ammortizzare un impianto ci vogliono 5 anni). In questo momento, però, le mie prospettive non sono per nulla chiare e non so esattamente cosa dovrei fare, verso quale direzione rivolgere la mia attività imprenditoriale. Al di là degli utili provvedimenti anticipati (come la stabilizzazione della cedolare secca sugli immobili commerciali), o alla conferma di altri già attuati nella precedente manovra come il regime di tassazione ridotta degli utili reinvestiti, al governo chiederei soprattutto di fornire – nel più breve tempo possibile – delle linee guida certe, un indirizzo stabile di politica industriale.
Cosa intende fare il Governo per sostenere l’attività di impresa? Dovrebbe non solo organizzare tavoli di confronto a Roma, ma decentrare le decisioni al territorio, che meglio conosce le specifiche esigenze delle imprese. Oggi, invece, non sappiamo cosa intendono fare nei prossimi anni (vedi l’incertezza sugli incentivi per l’Industria 4.0), non siamo neanche sicuri che il governo possa reggere per l’intera legislatura. Ad esempio, un conto è dire che si è a favore del rispetto dell’ambiente e per la mobilità sostenibile, un conto è pianificare gli investimenti necessari a livello infrastrutturale per realizzare le stazioni di ricarica, senza le quali sarà difficile lanciare anche in Italia l’auto elettrica. È almeno da vent’anni che nel nostro Paese manca un indirizzo stabile di politica industriale. Gli imprenditori, invece, devono decidere cosa fare e devono farlo in tempi ragionevoli. Soprattutto in questo momento l’impresa ha bisogno di decisioni veloci e condivise con il sistema europeo. Se non diamo un indirizzo e non lo facciamo in fretta, rischiamo che la manifattura non resista con conseguenze su tutto il sistema Italia.

Avvocato, socio AGI (Avvocati Giuslavoristi Italiani). Si occupa di diritto del lavoro, diritto civile e diritto sociosanitario. Docente in Master di alta formazione manageriale. Partecipa come relatrice a convegni e seminari. Responsabile Sezione Lavoro de Il Giornale delle PMI.
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