I giovani e l’istruzione: la spesa pubblica in Italia e i divari da colmare

 I giovani e l’istruzione: la spesa pubblica in Italia e i divari da colmare

Fonti: Banca d’Italia, Corte dei conti, Eurostat, Ministero dell’Economia

L’Italia spende per l’istruzione 8.514 euro per studente, il 15% in meno della media delle grandi economie europee (10.000 euro). Se si guarda alla spesa pubblica, il nostro Paese investe per scuola e università poco più dell’8% del budget statale a fronte del 9,9% medio registrato nell’Unione europea. La Francia è al 9,6%, la Germania il 9,3%, la Svezia il 14%. Anche rispetto al Pil, quella italiana è la spesa più contenuta: 4% contro la media Ue del 4,7%. Per tutti i settori scolastici, più di noi spendono anche paesi come Giappone, Stati Uniti, Canada e Brasile e se è vero che la spesa di uno Stato aumenta al crescere dell’istruzione, è altrettanto evidente che in Europa siamo davanti solo alla Romania in numero di laureati, rapportati all’intera popolazione. Il rapporto di Unimpresa «I giovani e l’istruzione: la spesa pubblica in Italia e i divari da colmare» fotografa un quadro impietoso per il nostro Paese. Un divario che potrà essere colmato con il Piano nazionale di ripresa e resilienza: sui 191,5 miliardi assegnati col Pnrr dall’Unione al nostro Paese, infatti, il 16%, pari a 30,6 miliardi, sono destinati a istruzione e ricerca (“missione 4”). Di qui l’appello del presidente onorario di Unimpresa, Paolo Longobardi: «I giovani, i nostri figli sono una priorità: la scuola deve ripartire definitivamente e deve ripartire in presenza. Il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, sta agendo bene e sta facendo il massimo per la presenza stabile in aula di tutti gli studenti italiani. La didattica a distanza è stata uno strumento di emergenza che non può e non deve diventare un sistema strutturale di insegnamento: la Dad a oltranza peggiorerebbe la situazione del nostro Paese, già molto indietro rispetto al resto d’Europa in termini di istruzione. L’utilizzo di dispositivi digitali ha consentito alla scuola di proseguire durante una situazione imprevista causata dalla pandemia, ma, allo stesso tempo, ha mostrato non pochi limiti e conseguenze negative sia sul piano della stessa didattica, a cagione di non irrilevanti problemi tecnici, sia sul versante della socialità e dello sviluppo sociale dei bambini e dei ragazzi. Il nostro è un appello fatto sia in veste di genitori e nonni sia in quanto rappresentanti di imprese che guardano con preoccupazione oltre che con responsabilità alla formazione e alla crescita della futura classe dirigente del Paese, di nuovi imprenditori, di studenti che a breve saranno inseriti nel mercato del lavoro e devono farlo trovandosi nelle migliori condizioni possibili, con il più importante livello di formazione, anche come persone. La scuola forma donne e uomini della nostra società, quella di domani».

Pur dovendo investire, rilanciandola, sulla istruzione secondaria professionale e tecnica, il nostro Paese deve colmare il divario del numero degli studenti universitari: in Europa, sono complessivamente 17,5 milioni, con la Germania che vanta un 17,9% di laureati, seguita dalla Francia (15%) e Spagna (11,7%); l’Italia e la Polonia, invece, si contendono gli ultimissimi posti nella classifica europea, con percentuali del 10,8% e 8,5%. Solo il 17% della nostra popolazione, peraltro, raggiunge un titolo di istruzione universitario, contro il 33% della Francia e il 40,1% del Regno Unito. Va osservato, inoltre, che il declino della spesa in istruzione in Italia è avvenuto in modo più repentino rispetto ai cambiamenti demografici. Se gli investimenti nell’istruzione sono calati di un buon 14%, in rapporto alla ricchezza pro-capite, la popolazione degli studenti si è contratta del solo 2,3% e ciò dimostra che i minori soldi investiti non sono giustificati dal calo delle nascite e del numero degli iscritti. Tutto questo favorisce sia il fenomeno dei cervelli in fuga sia la tendenza all’abbandono scolastico, particolarmente marcata al Sud. Ogni anno circa 30.000 studenti con il titolo di laurea hanno difficoltà nel passaggio dal mondo dell’istruzione a quello del lavoro: ciò provoca non solo una fuga all’estero, ma anche un buco di oltre 3,5 miliardi annuo allo Stato italiano. E per ogni cervello in fuga, il sistema italiano perde complessivamente circa 138.000 euro di quanto speso nella formazione. A chiudere il cerchio del buco nero dell’istruzione italiana ci pensano i dati preoccupanti della “disaffezione” allo studio. I tassi di abbandono variano in misura considerevole, passando dal 16,7% medio nel Sud al 9,6% nell’ area del Nord-Est. Tra le singole regioni meridionali spiccano la Calabria, Campania, Sicilia, Puglia e Sardegna dove il tasso di abbandono scolastico supera il 15%.

Non c’è governo al Mondo che non abbia a cuore la cultura dei cittadini. Eppure, il settore scolastico, in Italia, è come un buco nero: assorbe risorse, poche, che sono investite male poiché molte di esse vanno perdute. A raccontarcelo sono i dati pubblici dell’Unione europea che fotografano la nostra nazione come uno Stato lontano dagli standard europei e indifeso di fronte alla fuga dei cervelli Oltreconfine. Se è vero che l’Italia vanta un sistema di istruzione che – per qualità e professionalità – fa scuola ovunque, il nostro Paese è anche quello che investe meno nell’educazione dei cittadini e le ultime statistiche disponibili dimostrano che dalla storia, i diversi governi che si sono succeduti, non hanno imparato molto né tantomeno hanno provato a spostare la traiettoria degli investimenti pubblici verso il sistema scolastico.

Dalla primaria a quella universitaria, l’Italia non ha mai vantato un buon primato nel panorama dell’Unione europea sin dagli anni ’70 e la spesa pubblica per l’istruzione rimane tutt’oggi tra le più basse, sia in rapporto alla spesa pubblica totale che in proporzione alla ricchezza locale. Era il 2000 quando l’Italia destinava il 10% di spesa pubblica al sistema educativo nazionale ed è il 2019 che la stessa percentuale arriva scarsamente a un 8%, a fronte del dato medio europeo del 9,9%. Se poi confrontiamo gli investimenti in rapporto al pil, anche questo indicatore conferma la scarsa attenzione del sistema Italia alla crescita culturale del paese (Italia: 4%, Ue: 4,7%), ora come ben venti anni fa.

L’Italia ha speso nel 2019 solo 8.514 euro per studente, a fronte di un investimento medio delle grandi economie europee di quasi 10.000 euro. Tra i paesi d’Oltralpe, Il budget medio più alto destinato all’istruzione negli ultimi 4 anni è stato quello del governo francese con una percentuale del 9,6% sulla spesa totale, seguito a ruota dalla Germania con un 9,3% tra il 2015 e il 2019. Il dato della spesa per il sistema educativo italiano rimane, anche in questo caso, arretrato rispetto agli standard europei con un valore che oscilla tra il 7,9% e l’8,2%. Per tutti i settori scolastici, più di noi spendono anche paesi come Giappone, Stati Uniti, Canada e Brasile e se è vero che la spesa di uno Stato aumenta al crescere dell’istruzione, è altrettanto evidente che in Europa siamo davanti solo alla Romania in numero di laureati, rapportati all’intera popolazione. L’Italia, insomma, spende poco, anzi non abbastanza, nella crescita culturale e occupazionale del Paese, lasciando che la povertà educativa prevalga e che le disuguaglianze sociali non frenino la crescita dell’abbandono scolastico.

SPESA PUBBLICA IN ITALIA PER ISTRUZIONE

L’istruzione, subito dopo la sanità, costituisce la parte più rilevante della spesa pubblica per molti stati europei, con percentuali sul totale che variano dal 15,8% dell’Estonia, passando al 14 % della Svezia fino ad arrivare all’ ultimo posto dell’8,2% dell’Italia, quasi a pari merito con la Grecia. Il post crisi del 2008 non ha risparmiato nessuno Stato da una contrazione nelle risorse da dedicare all’istruzione ma non per tutta l’Europa il freno è stato utilizzato allo stesso modo. In proporzione alla spesa pubblica totale, l’Estonia e l’Irlanda sono i paesi che hanno speso di più in educazione nel 2018 (15,8 e 12,6%) ma anche quelli con in cui la quota di investimenti è cresciuta negli ultimi anni ad un tasso percentuale medio del 13,8%. In Italia, Francia, Spagna e Germania la quota di spesa investita in educazione non ha superato la media europea dell’10,2% ma con velocità diverse: Italia +2,4% e Germania e Francia del 3%. Al di sopra della media Ue si trovano Finlandia e Svezia – con valori superiori al 10%, Spagna (9,7%), Portogallo (10%), Croazia (11,5%) e infine Belgio e Danimarca con tassi comunque superiore al dato medio. Se dal 2015 al 2018, l’Europa ha investito in media il 9,9% della spesa pubblica in educazione, il sistema scolastico italiano ha beneficiato solo di uno scarso 8% di risorse pubbliche, rimanendo il fanalino di coda anche rispetto ai paesi con risorse e crescite economiche meno importanti.  Il declino della spesa in istruzione è avvenuto in modo più repentino rispetto ai cambiamenti demografici. Se gli investimenti nell’istruzione sono calati di un buon 14%, in rapporto alla ricchezza pro-capite, la popolazione degli studenti si è contratta del solo 2,3% e ciò dimostra che i minori soldi investiti non sono del tutto giustificati dal calo delle nascite e del numero degli iscritti. Sul versante quantitativo, a fronte di una spesa di tutto il sistema europeo di 742 miliardi di euro, l’Italia ne ha stanziato solo il 9% ovvero scarsi 70 miliardi di euro di risorse nel 2018 con oltre tre quarti dei fondi (76%) destinati alla retribuzione dei docenti (media europea del 65%) e solo il 3% agli investimenti (media europea del 7%). Il dato colloca il nostro Paese tra gli ultimi posti in Europa, con un vantaggio solo rispetto a pochi paesi ma ben distaccata dalla Germania (circa 139 miliardi di euro), Francia (120 miliardi di euro).

Se si rapporta la spesa in istruzione con la ricchezza nazionale (prodotto interno lordo), vi sono grandi differenze tra tutti i paesi europei. La Svezia e la Danimarca vantano il primato della maggior attenzione al sistema scolastico complessivo, con il 6,9% e il 6,4% del PIL rispettivamente, seguiti da Belgio ed Estonia (entrambi il 6,2%). Scarso il primato dell’Italia anche in questo ambito che mentre un decennio fa destinava solo il 4,5 % della propria ricchezza nazionale – a fronte del 5,1% medio europeo – lo stesso non ha fatto negli ultimi anni.  A fine 2018 nella classifica UE l’Italia è prima solo alla Grecia (3,9%), Irlanda (3,2%), Romania (3,2%) e Bulgaria (3,5%). Nel 2018, infatti, la spesa pubblica italiana per istruzione in percentuale del pil – pari al 4% continua ad attestarsi a livelli molto inferiori alla media europea (4,7%). I dati meno preoccupanti riguardano sia l’istruzione primaria che secondaria, non troppo discostanti dai competitor Ue, mentre quella universitaria sembra soffrire maggiormente (Media Ue: 1,5%,1,8% e 0,7% sul pil). In Italia la scuola primaria assorbe risorse pari all’1,4% della ricchezza interna mentre alla secondaria è destinato l’1,8% del PIL nazionale, perfettamente in linea con la media europea.  Gli studi universitari e post-laurea assorbono nel territorio nazionale solo lo 0,3% delle risorse statali a fronte di una media europea dello 0,7%. L’Italia spende meno del resto d’Europa nell’ istruzione di livello superiore a causa di una forte contrazione degli investimenti.  Tra il 2010 e il 2018, mentre le risorse pubbliche per l’istruzione si sono ridotte complessivamente del 7%, nello stesso periodo la spesa per l’istruzione superiore è stata ridotta del 19 %.

FUGA DI CERVELLI ALL’ESTERO: QUANTO PERDE L’ITALIA

Se l’Italia è bocciata in istruzione terziaria, il quadro si fa ancora meno roseo se si guarda alla percentuale di giovani con titoli universitari o post-diploma dove gli studenti della penisola si contendono quasi un ultimo posto, primi solo alla Romania. Mentre la Gran Bretagna, la Spagna e la Francia anche per il 2018 registrano un ulteriore aumento nella quota di giovani laureati – superiore anche alla media dell’Unione europea – il nostro Paese resta in una posizione davvero isolata.  Nel 2018 il sistema europeo conta 17,5 milioni di studenti impegnati nella fascia terziaria dell’educazione, con la Germania che vanta un 17,9% di laureati, seguita dalla Francia (15%) e Spagna (11,7%). L’Italia e la Polonia si contendono gli ultimissimi posti nella classifica europea, con percentuali del 10,8% e 8,5%. Solo il 17% della popolazione italiana raggiunge un titolo di istruzione universitario, contro un 33% della Francia e un 40,1% del Regno Unito. Rispetto alla media europea del 28%, anche la Germania e Portogallo stentano a brillare con percentuali pari rispettivamente al 25,7 e al 23,6. Analogo discorso per le prospettive di lavoro di quegli studenti italiani che, nonostante il più alto livello di istruzione fanno fatica a rimanere ancorati al Belpaese. Mentre in Europa il 76% dei giovani laureati trova lavoro in poco più di 1 anno, i numeri chiave dei ritorni occupazionali in Italia raccontano che la percentuale di giovani in cerca di occupazione all’estero continua a crescere e anche a pesare sul bilancio statale. Nel 2019, per circa 30mila studenti con il titolo di laurea le difficoltà legate al passaggio dal mondo dell’istruzione a quello del lavoro ha provocato non solo una fuga all’estero, ma anche un buco di oltre 3,5 miliardi annuo allo Stato italiano. Per ogni cervello in fuga, il sistema italiano ha perso complessivamente circa 138 mila euro di quanto speso nella formazione. Tra i diversi settori dall’istruzione quello della scuola primaria ha assorbito risorse per circa 55.500 euro, seguita dalla scuola terziaria – comprendente università e post-diploma – che insieme alla primaria ha totalizzato 83.000 euro di spesa.

DOVE SI SMETTE DI STUDIARE

A chiudere il cerchio del buco nero dell’istruzione italiana ci pensano i dati preoccupanti della “disaffezione” allo studio. Nel 2019, continua in Italia la tendenza al ribasso del tasso di abbandono scolastico degli ultimi 10 anni. Rispetto al 19% del 2009, la percentuale di giovani – in età compresa tra i 18 e i 24 anni – che ora non proseguono gli studi si attesta al 13,5%. La contrazione, rispetto all’anno precedente, è dell’1%, ma il dato globale resta ancora al disopra della media Ue del 10,2%. Se la dispersione scolastica negli ultimi anni è in calo, la distribuzione territoriale di chi abbandona precocemente la formazione e l’istruzione fotografa un mondo a due velocità e con un divario non ancora colmato. Guardando al solo panorama italiano, come il contesto socioeconomico di riferimento dei cittadini ancora influisce in misura rilevante sulla “povertà scolastica” degli studenti, influenzandone le aspettative e le scelte di carriera. Se infatti l’allontanamento dal sistemo scolastica è più marcato nelle aree meridionali nel Paese, dove gli studenti provenienti da contesti economici svantaggiati risultano più vulnerabili, altrettanto non può dirsi per le aree geografiche con tessuti economici più ricchi. I tassi di abbandono variano in misura considerevole, passando dal 16,7% medio nel Sud al 9,6% nell’ area del Nord-Est. Tra le singole regioni meridionali spiccano la Calabria, Campania, Sicilia, Puglia e Sardegna dove il tasso di abbandono scolastico supera il 15% mentre lo stesso non vale per Abruzzo, Friuli, Marche e Umbria dove oltre il 90% della popolazione che studia decide di proseguire gli studi. Nel mezzo ci sono regioni come Lazio, Emilia-Romagna, Toscana, Veneto e Molise dove la percentuale di giovani che abbandonano precocemente l’istruzione e la formazione si attesta tra il 10% e il 12% della popolazione studentesca. Le percentuali di abbandono in Liguria e Piemonte si attestano invece tra il 12% e il 15% mentre il primato assoluto è vinto dagli studenti della Provincia di Trento per i quali solo una percentuale inferiore al 7,5% decide di non proseguire gli studi.

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