Il lavoro non fa più identità, è crisi per la rappresentanza

Lo svuotamento della dimensione identitaria legata al lavoro e alle ideologie. All’origine della crisi di identità e appartenenze dei nostri giorni c’è lo sgretolamento di quelli che in passato erano stati i fattori aggreganti: lavoro e ideologie, che oggi appaiono sempre meno capaci di fare tessuto. Una indagine del Censis dimostra che solo il 15,2% degli italiani condivide ancora una qualche forma di appartenenza di classe, dichiarando che le persone a cui si sentono più vicini sono quelle che svolgono lo stesso lavoro (7,9%) o che hanno lo stesso reddito (7,3%). Ancora più debole è la forza delle ideologie: solo il 5,2% degli italiani si sente vicino a persone che hanno le stesse idee politiche (2,8%) o la stessa fede religiosa (2,4%). I fattori che invece innescano meccanismi di appartenenza oggi riguardano la dimensione individuale delle persone: al primo posto (26,6%) c’è la condivisione dello stesso stile di vita. Interessi culturali, vacanze, sport riescono a sviluppare maggiore senso di appartenenza.
La crescita tra i giovani del «lavoro ibrido» senza rappresentanza. In una terra di mezzo tra il lavoro dipendente tradizionale e quello autonomo di tipo imprenditoriale e professionale, si è sviluppata un’area del «lavoro ibrido» che ha impattato negativamente sul sistema tradizionale della rappresentanza, articolato in associazioni datoriali, da una parte, e sindacali, dall’altra. Quest’area conta 3,4 milioni di occupati (il 15,1% del totale) tra lavoratori temporanei, intermittenti, collaboratori, partite Iva, prestatori d’opera occasionale. Soprattutto per i giovani è sempre più ardua l’autocollocazione rispetto alle categorie del passato. Tra gli occupati di 15-24 anni la quota di «ibridi» è maggioritaria, pari al 50,7%. Tra loro è forte la paura di perdere l’impiego: circa 1 milione di giovani con meno di 35 anni (il 18,8%) teme di perdere il posto di lavoro nei prossimi mesi e solo l’11,1% ritiene che poi sarà relativamente facile ritrovarne uno simile.
Il deterioramento del lavoro. I percorsi di lavoro sono diventati sempre più frammentati. Si moltiplicano i tempi di non lavoro nell’ambito della vita delle persone: il 14% degli occupati si è trovato negli ultimi tre anni a interrompere il proprio percorso professionale, incorrendo in uscite temporanee o ripetute dall’attività lavorativa. Tale rischio è maggiore nelle fasce generazionali più giovani, tra i 16 e i 34 anni, dove il 20,5% degli occupati si è trovato a vivere periodi di non lavoro, e anche nel Mezzogiorno, dove la percentuale arriva al 21,5%. Assistiamo anche a un progressivo sfilacciamento dei legami di appartenenza aziendale: sono 2.229.000 gli occupati dipendenti (il 18,9% del totale) che hanno con le aziende presso cui lavorano un rapporto a termine, e tra i giovani con meno di 35 anni la percentuale arriva al 27,7%. Anche la riduzione dell’impegno lavorativo, e conseguentemente dell’investimento professionale, accomuna sempre più occupati: tra il 2008 e il 2013 il numero dei lavoratori part time è aumentato del 19,9%, arrivando a quota 4.013.000 (il 17,9% del totale). Pesa il deterioramento delle relazioni nei luoghi di lavoro: gli italiani sono il popolo europeo tra cui si registra il più basso livello di collaborazione tra colleghi (il 51% contro una media europea del 73%). E aumenta la disaffezione verso un lavoro divenuto troppo spesso fonte di problemi: il 30% dei lavoratori italiani (contro il 27% della media europea) dichiara di avere accusato nel corso dell’anno stress, depressione e ansia legati alla propria condizione lavorativa.
Il giudizio sui soggetti di rappresentanza. Negli ultimi anni la voglia degli italiani di impegnarsi nella tutela di interessi collettivi è diminuita. Si riduce la quota di cittadini che svolgono attività gratuite per sindacati o strutture di rappresentanza: dall’1,3% del 2003 all’1,1% del 2013 (571mila persone). Le associazioni impegnate nelle grandi battaglie per l’ambiente, la pace, i diritti civili perdono attivisti: dal 2,3% all’1,5% degli italiani (778mila persone). Malgrado la sfiducia generalizzata verso le classi dirigenti del Paese, rappresentanze sociali comprese, la maggioranza degli italiani (il 59,7%) continua però a considerare gli organismi intermedi come un elemento centrale nel funzionamento democratico del sistema: il 42,5% li ritiene importanti in quanto rappresentanti di interessi e valori comuni a gruppi di cittadini e il 17,2% ritiene un valore la loro presenza come collante aggregativo in una società sempre più individualista. Il 40,3% degli italiani invece ha un giudizio negativo: il 12,7% considera il loro ruolo del tutto inutile perché gli interessi devono esprimersi attraverso la politica e le istituzioni, il 16,9% pensa che siano superati perché superate sono le logiche aggregative degli interessi secondo le appartenenze professionali, e il 10,7% punta il dito sull’approccio corporativo dei soggetti di rappresentanza e sulla loro tendenza a chiudersi nella difesa di interessi settoriali.
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