La leadership oltre l’empowerment: il Management secondo Taylor

 La leadership oltre l’empowerment: il Management secondo Taylor

Convinto che le aziende fossero gestite in modo inefficiente e approssimativo, un ingegnere americano Frederick Taylor nei primi anni del ‘900 inventò il «management scientifico». Il lavoro, secondo Taylor consiste principalmente in compiti semplici e non particolarmente interessanti. L’unico modo per far svolgere alle persone il lavoro è sorvegliarle attentamente e compensarle in modo appropriato. Secondo questo approccio, i lavoratori sono come pezzi di una macchina complessa. Se svolgono il loro lavoro nel modo corretto e nei tempi giusti, la macchina funzionerà alla perfezione. Per essere sicuri che ciò accada, i capi devono effettuare comandi e controlli sull’esecuzione delle attività, con tempi e metodi prefissati, ricompensare il comportamento desiderato nei dipendenti e punire quello che si vuole evitare.

Le persone rispondono in modo razionale e coerente. Il sistema dell’azienda e della società prosperano.

La catena di montaggio, in cui si doveva girare la stessa vite nello stesso modo per tutto il giorno probabilmente dava ragione a Taylor.

Oggi, in buona parte del mondo e per molte attività questo meccanismo non funziona più.

Eppure, se un imprenditore degli anni ‘60 avesse viaggiato in una macchina del tempo fino ai giorni nostri troverebbe che la gran parte dei manager si comporta ancora secondo il modello di Taylor.

«Attività algoritmiche» ed «euristiche»

Gli scienziati comportamentali più recentemente hanno elaborato una distinzione. Ciò che facciamo sul lavoro o impariamo a scuola è riconducibile a due differenti categorie: «attività algoritmiche» ed «euristiche».

Un compito algoritmico, meccanico segue istruzioni definite lungo un percorso prestabilito per arrivare al risultato. Esiste un algoritmo, una regola per svolgerlo.

Un compito di tipo euristico, creativo, è invece l’opposto. Non c’è alcun algoritmo. Occorre sperimentare diverse possibilità ed escogitare nuove soluzioni.

Lavorare come cassiere al supermercato è un compito principalmente algoritmico. Si passa la merce, si legge il codice a barre, si fa sempre la stessa cosa in un certo modo. La relazione con il cliente è prevista, ma veloce, spesso impersonale.

Creare una campagna pubblicitaria è un compito principalmente euristico. Si deve inventare qualcosa di nuovo.

Nel secolo scorso la maggior parte del lavoro era algoritmico. Anche per i colletti bianchi i compiti erano abbastanza routinari. Molte attività che si facevano negli uffici contabili, negli studi legali, nella programmazione dei computer poteva essere racchiuso in un prontuario, in una formula, o in una serie di passaggi che portavano alla corretta risposta e conclusione.

Oggi e sempre più in futuro la società di consulenza globale Mc Kinsey stima che nei paesi occidentali il 30% della crescita occupazionale nelle imprese resterà di lavoro algoritmico, meccanico, mentre il 70% sarà di tipo euristico. Il motivo principale è che un lavoro di routine può essere automatizzato. Un lavoro creativo e non routinario, in genere, no.

Un nuovo approccio alla Leadership

Teoria x contro Teoria y.

Douglas McGregor, economista, docente presso la MIT Sloan School of management, sostiene che svolgere attività meccaniche porta chi lavora ad un comportamento “passivo”. Svolgere attività creative porta ad un comportamento attivo e dinamico. Ognuno di questi due approcci richiede un differente stile di leadership.

L’ambito x presume che le persone evitino lo sforzo, cerchino la stabilità di impiego e lavorino solo per denaro. Per questo hanno bisogno di essere guidate e controllate attentamente. Se il lavoro è “meccanico” ha ancora utilità lo stile di leadership “comando e controllo”, cioè input su obiettivi molto specifici e limitati, successivo controllo di ciò che è stato fatto, con un approccio di gestione e motivazione “bastone e carota”.

In ambito y, si parte dal presupposto che il lavoro sia un fatto naturale, come il gioco, che intraprendenza e creatività siano ampiamente diffuse, e che se a qualcuno viene dato un obiettivo, questi cercherà di esserne responsabile.

Gli esseri umani non sono semplicemente cavalli più piccoli, più lenti e più profumati di quelli che rincorrono la propria carota giornaliera”.

Obiettivi e motivazione

Alcuni scienziati hanno studiato la motivazione con esperimenti in laboratorio e ricerche che abbracciano ogni campo: economia, educazione, medicina, sport, attività fisica, produttività personale, ambiente, relazioni e salute fisica e mentale. Sono giunti alla stessa conclusione: gli esseri umani possiedono un forte impulso a essere autonomi, ad autodeterminarsi e a entrare in relazione gli uni agli altri.

La psicologa Carol Dweck, docente della Stanford University sostiene che la motivazione scatta in relazione al tipo di obiettivo che abbiamo o ci viene assegnato. Distingue gli obiettivi di prestazione dagli obiettivi di apprendimento. Prendere ottimo in francese è un obiettivo di prestazione. Essere in grado di parlare in francese è un obiettivo di apprendimento.

Nella scuola emergono diversi comportamenti degli allievi sulla base delle differenti motivazioni e obiettivi. Nelle sue ricerche è emerso che gli allievi che pensano di avere obiettivi specifici e limitati lasciano perdere velocemente i problemi difficili, dando la colpa alla loro mancanza di intelligenza per aver incontrato difficoltà. Gli alunni che hanno un atteggiamento mentale più aperto e orientato a crescere e imparare cose nuove continuano a tentare nonostante le difficoltà e impiegano strategie molto più creative per trovare una soluzione.

A che cosa danno la colpa questi studenti quando non riescono a risolvere i problemi più difficili? Scrive Dweck: «La risposta, che ci ha sorpreso, fu che non danno la colpa a niente. Riconoscono che gli ostacoli sono inevitabili mentre impari qualcosa di nuovo e rappresentano stimoli utili a migliorarsi.”

Da adulti, il nostro comportamento è ancora più complesso. Contraddice l’idea che siamo esseri lineari, puramente razionali, piccoli robot orientati a massimizzare il personale vantaggio economico. E per le ricerche che hanno fatto emergere questo concetto lo psicologo Daniel Kanheman ha vinto il Nobel per l’economia nel 2002.

I profondi bisogni psicologici che accomunano gli esseri umani sono competenza, autonomia, relazione e scopo.

Quando questi bisogni sono soddisfatti, allora siamo motivati, produttivi e felici.

Quando sono ostacolati, la nostra motivazione, produttività e felicità crollano.

Quanta autonomia hanno i tuoi diretti collaboratori?

4 domande per valutarla:

  1. quali sono le principali responsabilità di ciascuno di loro? che cosa fa ognuno prevalentemente in un giorno?
  2. Quanta autonomia ha sulla gestione del suo tempo, sull’orario in cui inizia e termina il lavoro e su come ripartisce le attività ogni giorno?
  3. In che misura può scegliere con chi collaborare?
  4. Quanta autonomia ha sulle procedure e su come svolge le attività che rientrano nelle sue responsabilità?

La motivazione autonoma implica agire con piena volontà e capacità di scelta, mentre la motivazione controllata implica agire sotto pressione per raggiungere determinati risultati su richieste altrui, che provengono da forze percepite come esterne da sé.

L’autonomia non ha niente a che vedere con il puro individualismo tipo «fai da solo e non fidarti di nessuno». Si può essere autonomi e al tempo stesso interdipendenti con gli altri.

Il management “comando e controllo” si basa sulla convinzione che le persone abbiano bisogno di essere dirette, perché senza una guida sicura e decisa vagherebbero a vuoto. Ma è veramente questa la nostra natura fondamentale?

Lavorare con soddisfazione comporta qualcosa in più che rispondere semplicemente alle richieste di chi esercita il controllo.

E se il nostro criterio di partenza è che i dipendenti vorrebbero evitare di lavorare, allora guidarli e controllare come usano il tempo può essere un sistema per tenerli all’erta.

I manager che si lamentano del fatto che i loro collaboratori non vogliono assumersi responsabilità sembrano essere fra coloro che svolgono una stretta sorveglianza sul lavoro quotidiano di chi lavora con loro, e a volte anche degli operatori di due o tre livelli inferiori nella scala gerarchica.

Un nuovo modello parte invece da un altro presupposto.

Presume che le persone vogliano essere responsabili. E che avere il controllo del proprio lavoro, del tempo, della tecnica e del team sia la via per ottenere quel risultato.

Un‘azienda dove lavorare è stimolante è quella in cui i collaboratori hanno la possibilità di sviluppare padronanza di ciò che fanno e le loro attività sono collegate a uno scopo più grande. Il management sa comunicare significato e priorità, e lascia poi libero spazio alla persona di realizzare il risultato.

Alcune aziende hanno oliato un po’ gli ingranaggi e molte di più hanno solo finto di farlo.

Il sistema di management attuale appare poco in sintonia con i lavori creativi e non routinari su cui si basa oggi gran parte dell’economia nei paesi occidentali.

Oltre l’«empowerment»

Questo concetto presume che l’azienda e chi ne detiene il potere ne versi benevolmente una parte nei piatti protesi da dipendenti riconoscenti.

Questa non è autonomia. È solo una forma leggermente più civilizzata di controllo.

L’autonomia si misura su 4 aspetti dell’attività lavorativa: lavoro, tempo, tecnica e team.

Cioè, cosa fanno le persone quando, come e con chi.

Se togliamo le persone da ambienti orientati al controllo, che sono gli unici che hanno conosciuto, e se le mettiamo in un’azienda o in un ambiente di pura autonomia, faticheranno a adattarsi. Occorre quindi procedere step by step, ma procedere.

La libertà fondamentale per gruppi di persone creative è la libertà di sperimentare nuove idee. Alcuni scettici insistono che l’innovazione è costosa. Alla lunga, l’innovazione è economica. È costosa la mediocrità.

“Leader è chi ha abbastanza buon senso da prendere i migliori per fare ciò che vuole sia fatto. E la capacità di trattenersi dall’unirsi a loro mentre lo stanno facendo”.

Teddy Roosevelt, 26° Presidente degli Stati Uniti

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