La PMI e il fatale errore di operare senza una strategia

 La PMI e il fatale errore di operare senza una strategia

La maggior parte di noi, quando deve acquistare un’auto, legge le prove su strada e confronta le differenti modalità di alimentazione (benzina, diesel, gas GPL, metano, elettrico, ibrido, ecc.). Non solo, decide quale motorizzazione sia la migliore, quali accessori sono imprescindibili e quali no. Poi decide gli allestimenti e il colore. Infine, valuta i costi di manutenzione, la qualità dell’assistenza post vendita, il costo della tassa di proprietà, dell’assicurazione, la durata della garanzia e il valore residuale della vettura al tempo della sua futura vendita. Una volta esperite tutte queste attività, decide se immobilizzare o meno la cifra destinata a cambiare auto. E stiamo parlando dell’auto…come è possibile che un imprenditore o un manager di una PMI, che opera con livelli di incertezza e di capitale di rischio molto più elevati, non progetti adeguatamente il proprio futuro, attraverso una pianificazione strategica? Secondo una ricerca condotta da Unioncamere tra il 2014 e il 2018 2 imprese su 5 hanno chiuso nei primi 5 anni di attività. Le altre 3 sopravvivono con difficoltà, ma imprenditori e manager delle PMI italiane continuano a ritenere la pianificazione strategica inutile o troppo difficile da attuare. La questione è che le PMI sono la linfa vitale della nostra economia. Nel 2019, le piccole e medie imprese italiane (quelle con un giro d’affari inferiore a 50 milioni di euro) impiegavano l’82% dei lavoratori (ben oltre la media Ue) e rappresentavano il 92% delle imprese attive (dai calcoli sono escluse le imprese dormienti con fatturato a zero nell’ultimo anno). Le dimensioni delle PMI sono sia un vantaggio sia uno svantaggio. Sono un inestimabile vantaggio se pensiamo alla rapidità di pensiero e all’innovazione, oltre alla preziosissima competenza specifica e locale, sono un (terribile) svantaggio se si pensa ai costi unitari più elevati, al brand spesso troppo debole e alle minori risorse disponibili. Da questo mix si ottiene, contemporaneamente, uno sviluppo elevato di start-up, accompagnato da un altrettanto elevato numero di fallimenti, conseguentemente, rapidi incrementi dei livelli occupazionali, cui seguono altrettanto rapide perdite di posti di lavoro. Ma perché tutto questo accade, quali sono le cause principali?

1. Cattiva gestione (soprattutto nella fase iniziale)

2. Motivazioni personalistiche dell’imprenditore e/o del management

3. Decisioni istintive e approssimative

4. Investimenti inutili e nella direzione sbagliata

5. “Shock” economici o competitivi.

In un’organizzazione destrutturata, l’acquisizione di nuovi clienti, il controllo del flusso di cassa, la protezione della redditività, la riduzione dei rischi, la compliance sono problematiche che si fondono in un “tutto” ingestibile, che travolge (e sconforta) l’imprenditore e i suoi manager. Ecco, allora, che la stella polare diventa la sopravvivenza, con buona pace dello sviluppo e del reddito. Certo, non è tutto imputabile alla mancanza di una strategia o ad uno stile di management approssimativo. Ci sono fattori oggettivi che complicano la situazione: la disponibilità di finanziamenti, l’acquisizione e la fidelizzazione dei talenti e l’iper concorrenza globale, per tacer del COVID-19. Ma, tornando al punto: perché la PMI non ha la cultura della pianificazione strategica?

Nessun desiderio di crescita: comfort zone del proprietario

Alcuni imprenditori sono gratificati dallo stile di vita che conducono e concepiscono la loro impresa solo in funzione del mantenimento del tenore di vita. Non sono per nulla preoccupati di “quel che sarà”, vogliono solo garantirsi un equilibrio ideale tra reddito e tempo libero.

Non c’è bisogno di nessuna strategia: la percezione dell’irrilevanza

Esistono piccole imprese che operano in mercati ben definiti, con operazioni semplici e poco variegate. In questi casi, la pianificazione strategica può essere considerata un’attività eccessiva, quasi pretenziosa. In altri casi, l’azienda è guidata da un imprenditore che ha una visione chiara, che persegue con una strategia non scritta. Gestisce il proprio team attraverso frequenti comunicazioni, che attribuiscono compiti e lavori circoscritti, senza mai riferirli ad un quadro generale e prospettico. Anche in questo caso, la pianificazione strategica può essere vista come un’inutile, anzi, fastidiosa attività, utile solo a perdere tempo. Questa tipologia di gestione, nelle fasi critiche, procede direttamente con il taglio dei costi, senza nessun approccio critico.

Si affonda con la nave, così com’è: paura del cambiamento

“Le cose le abbiamo sempre fatte così e io sono diventato/a quel che sono grazie a questa modalità operativa, perché dovrei cambiare?” Con questa mentalità, molti imprenditori negano l’evidenza di un mondo in continuo cambiamento e difendono (sino alla morte dell’azienda) lo status quo. La perfetta identità tra le loro abitudini e la loro autopercezione come imprenditori, li porta ad escludere qualsiasi ipotesi di change management.

L’introduzione della pianificazione strategica sposta immediatamente l’attenzione sugli obiettivi organizzativi, attraverso un’attenta analisi dell’ambiente interno ed esterno. Questa consapevolezza porta a prendere decisioni migliori e dà un senso più realistico delle cose da controllare e misurare. L’efficienza delle risorse (umane e non) sarà misurata con criteri razionali, direttamente connessi con i risultati attesi. La comunicazione interna ed esterna sarà sempre pertinente agli obiettivi e coordinata tra le varie funzioni. Nel medio termine, l’azienda sarà percepita, da clienti e potenziali partner, come una realtà organizzata e in grado di affrontare il futuro.

La situazione è davvero critica e se la nostra classe imprenditoriale non farà il salto di qualità auspicato, il nostro paese perderà tutto il patrimonio immenso di idee e valore, che faticosamente i pionieri del nostro modello industriale avevano creato e sviluppato.

1 Comment

  • Ottimo spunto di riflessione, dal quale emerge una esperienza “sul campo” e NON per sentito dire, come purtroppo spesso capita.

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