La proroga del divieto di licenziamento: un provvedimento che desta fortissime perplessità

A seguito delle consultazioni con le maggiori sigle sindacali e Confindustria, il Governo ha anticipato che sarà ulteriormente esteso, con la legge di bilancio, il divieto dei licenziamenti collettivi e dei licenziamenti per ragioni economiche oltre il termine già fissato al 31 gennaio 2021 dall’art. 12 del Decreto Legge 28 ottobre 2020, n. 137 (il c.d. “Decreto Ristori”).

Le imprese potranno continuare a fruire della Cassa Integrazione, ma non potranno licenziare per motivi economici o aprire procedure di licenziamento collettivo sino al 21 marzo 2021.

Varranno, si auspica, anche per questo nuovo provvedimento, le esclusioni dal divieto già vigenti:

  • in ipotesi di cessazione dell’attività di impresa conseguenti alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell’attività di impresa (eccetto i casi ascrivibili ad un trasferimento di azienda);
  • in ipotesi di accordi collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale di incentivo alla risoluzione del rapporto per i lavoratori che aderiscano a detto accordo;
  • in licenziamento conseguenti a fallimenti ove non sia disposto l’esercizio provvisorio dell’attività di impresa;
  • in cambi di appalto.

Rimarrebbero comunque esclusi dal divieto di licenziamento i dirigenti, i lavoratori domestici, il licenziamento per superamento del periodo di comporto ed il licenziamento nel corso del periodo di prova. Sarà ancora possibile comminare il licenziamento disciplinare.

L’annunciato provvedimento desta fortissime perplessità: il costo della Cassa Integrazione ricade su tutta la collettività (i fondi stanziati potrebbero essere utilizzati per potenziare le strutture sanitarie ed il sistema dei trasporti), non premia le imprese virtuose che non hanno fatto ricorso agli ammortizzatori sociali.

Sostanzialmente, nel nostro Paese il divieto di licenziamento avrebbe una durata annuale il che costituisce un unicum a livello europeo e presenta evidenti profili di incostituzionalità andando profondamente ad incidere sulla libertà di impresa.

Vale la pena evidenziare che soltanto sei paesi europei hanno cambiato la normativa nazionale sui licenziamenti durante la pandemia e nessuno in modo così stringente come l’Italia.

Francia e Spagna, ad esempio, hanno aumentato i costi e reso più complesse le procedure in caso di licenziamento, soprattutto per i licenziamenti collettivi.

Con una cassa integrazione universale e senza costi, estesa a molte piccole e medie imprese che mai prima avevano avuto la possibilità di beneficiare della cassa integrazione straordinaria o in deroga, come è quella introdotta in Italia e in molti altri paesi Ocse, il divieto di licenziamento è una norma sostanzialmente ridondante e di carattere più politico che giuridico.

Non solo. Il rischio è di posticipare all’anno venturo migliaia di licenziamenti, in un anno in cui difficilmente il PIL tornerà a risalire e saranno poche le imprese che investiranno in nuove attività produttive.

Pur se la proroga per ragioni di emergenza risulterebbe giustificata in quanto per le imprese che utilizzano la Cassa Integrazione Covid non sarebbe più dovuta alcuna contribuzione (e ciò contrariamente a quanto previsto da Decreto Rilancio), non è possibile non evidenziare come, in assenza di calo del fatturato, il ricorso all’ammortizzatore sociale risulta del tutto distorto e strumentale ricordando anche che, secondo i dati recentemente diffusi dall’INPS, attualmente ben 6 milioni di lavoratori sono  beneficiari di cassa integrazione

L’emergenza sanitaria, economica e sociale continua a colpire duramente tutti i settori produttivi del Paese. Certamente il prorogare il divieto di licenziamenti per motivi economici farà perdere anche posti di lavoro che si sarebbero potuti salvare il prossimo anno ed alla fine penalizzerà comunque le piccole e medie imprese che avrebbero potuto efficientemente riorganizzare la propria struttura.

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