Le PMI ai tempi del Covid-19 tra presente e futuro: una modesta proposta per la crisi

L’Italia da circa metà gennaio 2020 sta affrontando la più grande sfida mai vista nella storia. Sfida umanitaria, sfida di fiducia, di impegno: ma la sfida più grande, una sfida di sopravvivenza, la stanno affrontando le nostre piccole aziende. Artigiani, commercianti e piccoli imprenditori. Persone che ad un tratto, per motivi giustamente di contenimento della pandemia, si sono trovati costretti a chiudere le loro attività, generando subito dopo l’arrivo del Covid-19 in Italia una contrazione dell’offerta mai vista prima.

Ma c’è un aspetto di questa crisi che oggi chi ci governa non sembra aver percepito: come anche la Corte dei conti ha sottolineato nelle sue memorie al DEF2020, questa crisi è divenuta in poco tempo una crisi di domanda, domanda che si è praticamente azzerata nello spazio di un mese, e che sta portando le nostre imprese, anche quelle poche che oggi possono riaprire, a soffrire di una crisi di liquidità senza precedenti.

E allora ci chiediamo, come andrà quando sarà finito tutto questo? Quale sarà lo stato economico-sociale del nostro territorio dopo questa grande e sicuramente vinta sfida? Sicuramente il ritorno alla normalità non sarà immediato, non basta dichiarare aperte tutte le attività per riprendersi. Bisogna pensare più a lungo termine, all’impatto che tutto questo avrà avuto sulle persone, sulla loro fiducia e sulle aspettative di un futuro migliore.

Allo stato attuale, le misure economiche introdotte da parte dello Stato sembrano poter dare ossigeno alle imprese, ma a conti fatti si sono riscontrati anche ritardi e macchinosità nell’accedere agli aiuti. Con il decreto liquidità del 9 aprile 2020 si è cercato di dare una mano concreta, concedendo garanzie a prima richiesta per poter accedere a preziosa liquidità, transitando per le banche di competenza: aiuti che per il momento sono stati un mero prestito, garantito e con modalità di accesso e restituzione agevolate, ma sempre prestiti rimangono.

E proprio questo elemento fa storcere il naso pensando all’efficacia (non all’efficienza) di queste nuove norme: essendo un accesso agevolato a nuova liquidità – e non contributi a fondo perduto– le imprese vi accedono principalmente per pagare debiti pregressi, insostenibili causa crollo del fatturato post covid-19, e non tanto per effettuare nuovi investimenti in un’epoca di totale incertezza sulle future dinamiche della domanda. Mai come oggi si è verificato un blocco o quasi congelamento della circolazione della moneta, come dicevamo sopra. Non si spende più, per paura di uscire in primis e, in secundis, perché non si ha la forza di spendere.

In particolare, questi aiuti si concretizzano in finanziamenti in liquidità per un importo massimo del 25% del proprio fatturato. Di conseguenza più è alto il fatturato più aiuti si possono avere. Unico problema è che il periodo di restituzione, se pur garantiti dallo Stato, è di soli 6 anni con 2 di preammortamento.

Facciamo un esempio: un imprenditore nell’anno 2019 ha fatturato 200mila euro; di conseguenza potrebbe richiedere fino a 50mila euro circa, se il periodo di preammortamento è due anni viene da sé che la quota capitale da restituire viene divisa non per 6 ma bensì per 4. Detto ciò, l’imprenditore medio si troverebbe a dover restituire alle banche mensilmente una rata di oltre mille euro. Quindi il problema non è risolto, è soltanto temporaneamente spostato, perché con rate del genere, che potranno anche essere più alte, le aziende non faranno altro che intaccare il loro flusso di cassa in negativo.

È normale pensare in questo contesto che il decreto Liquidità non basta più. Si deve andare oltre, verso i finanziamenti a fondo perduto nei confronti di aziende che hanno perso sei mesi, se non un intero anno, di fatturato. A dirlo ormai non sono solo pensatori ed economisti estremisti del «deficit incontrollato senza freni», ma anche autorità ben più importanti.

Secondo Banca d’Italia (si veda l’audizione alla Camera del 27 aprile scorso), ad esempio, più che di un’opportunità, si tratterebbe di una vera e propria necessità perché «una parte delle perdite subìte dalle imprese non sarà recuperabile e non tutti i debiti (assistiti da garanzie pubbliche) accesi per far fronte alla crisi saranno immediatamente ripagati al termine dell’emergenza sanitaria».

Nella stessa direzione si era espresso il nuovo presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, nel suo primo discorso («La strada di far indebitare le imprese non è quella giusta») e qualche giorno fa è tornato sull’argomento anche Carlo Messina, A.d. di Intesa Sanpaolo sottolineando che «le aziende hanno bisogno di finanziamenti a fondo perduto. Per tenere in vita chi ha perso 6 mesi di fatturato spesso non bastano aiuti che aumentano i debiti, perché i debiti vanno restituiti».

Nel famoso decreto-aprile, diventato ormai decreto-maggio, (non ancora pubblicato mentre scriviamo) pare si stia andando verso un contributo a fondo perduto sulla base del fatturato perso tra marzo e aprile rispetto all’anno precedente. Ma altre strade potevano essere intraprese, ad esempio, convertendo i prestiti ottenuti dalle imprese nell’ambito del Decreto Liquidità in contributi a fondo perduto: non ti do subito il contributo perché potrebbe non servirti; per il momento però, visto che hai immediato bisogno di liquidità, ti concedo un prestito, se poi non sarai in grado di rimborsarlo e rispetterai determinate condizioni, te lo converto in un contributo a fondo perduto.

Con questo procedimento molto più articolato (e sicuramente più difficile da seguire) si riuscirebbe da una parte a sostenere con liquidità fresca le aziende e dall’altra a convertire a fondo perduto i prestiti per le aziende davvero in difficoltà, evitando il fenomeno del moral hazard. D’altra parte, però, pensiamo che l’altra tipologia di aiuti a fondo perduto ipotizzata – acquisire i debiti con garanzia statale contratti dalle imprese da parte di un fondo statale e convertirli in capitale sociale – sia un’idea interessante ma non applicabile alle piccole e medie imprese, che si ritroverebbero lo Stato nel Capitale Sociale per poche migliaia di euro, con una partecipazione molto frazionata.

Dott. Gabriele Galletta – Dottore Commercialista ed Economista d’Impresa

Dott. Andrea Scarpino – Pres. CDA Fs & Partners società di revisione legale

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