La malattia del lavoratore subordinato, tra il diritto dei dipendenti di curarsi e il diritto delle aziende di produrre

Quando un lavoratore si ammala ha il sacrosanto diritto di assentarsi dal lavoro e di curarsi come meglio può ricevendo comunque un trattamento economico adeguato (retribuzione e/o indennità di malattia), così come prescrive la legge (art. 2110 Cod. Civ.) e come è giusto che sia.
Ma, nel caso il lavoratore si assenti per lungo tempo o nel caso siano molti dipendenti ad assentarsi più o meno contemporaneamente nello stesso periodo, i diritti dei lavoratori vengono giocoforza a collidere con gli interessi aziendali di continuare a produrre e di mantenere una continuità organizzativa adeguata.
Come è noto, in caso di dipendenti con contratto a tempo determinato o indeterminato, per ottenere il diritto ad assentarsi con il trattamento economico sostitutivo, il lavoratore necessita di un certificato di malattia, che viene emesso dal medico curante e trasmesso direttamente da quest’ultimo via internet all’Inps. L’Inps stesso provvedere ad inviare il certificato al datore di lavoro, sempre via internet. Il lavoratore, da parte sua, se l’azienda lo richiede, deve comunicarle il numero identificativo del certificato, che gli viene reso noto dal medico.
Il datore di lavoro, per legge, non può conoscere la natura della malattia ma solo la prognosi, cioè il numero dei giorni in cui il lavoratore potrà rimanere assente. Qui sorgono i primi problemi dato che le aziende, in questo modo, non possono minimamente avere l’idea se possono far affidamento sul ritorno in organico del lavoratore e/o in che tempi.
Sempre secondo la legge, il lavoratore deve poi sottoporsi ad accertamenti sanitari, di competenza delle Asl. Se il lavoratore è assicurato presso l’Inps per l’indennità economica di malattia, sarà lo stesso istituto di previdenza ad effettuare i controlli, soprattutto su richiesta del datore (la c.d. “visita fiscale”).
Facendo una generalizzazione, la sospensione del rapporto di lavoro del lavoratore malato (periodo o termine di comporto) può prolungarsi fino a circa 3 mesi, per anzianità di servizio inferiore ai dieci anni, e fino a circa 6 mesi per anzianità di servizio superiore ai dieci anni. La durata precisa viene di solito concordata in sede di contrattazione dei contratti collettivi di categoria. Questi ultimi possono prevedere la possibilità, per il lavoratore, di chiedere, prima della scadenza del termine del periodo di malattia, un ulteriore periodo di aspettativa, senza retribuzione e senza decorrenza dell’anzianità di servizio.
Il lavoratore non può essere licenziato finché non è scaduto il termine di conservazione del posto (il c.d. cosiddetto termine di comporto) previsto dai contratti collettivi. Se il datore non esercita il diritto di recesso (il che, viceversa, avviene molto spesso), questi ultimi spesso prevedono, dopo tale scadenza, un periodo di aspettativa non retribuita.
Alla scadenza del periodo di comporto che, si ricorda, non può essere calcolato quando la malattia è di origine professionale cioè da infortuni sul lavoro o per patologie derivanti dal lavoro stesso (ad esempio le malattie causate dall’esposizione di amianto), l’azienda può licenziare il lavoratore anche solo per il motivo di aver superato il limite dei giorni previsti dal contratto collettivo.
L’indennità giornaliera di malattia a carico dell’Inps spetta a partire dal 4° giorno e fino ad un massimo di 180 giorni in un anno solare. Questa è solitamente anticipata dal datore di lavoro, nel momento in cui provvede alla retribuzione per il periodo successivo alla malattia e, in ogni caso, non può essere inferiore al 50% della retribuzione del mese precedente.
Come è facile immaginare, l’assenza di un lavoratore per periodi lunghi può essere assorbita più o meno facilmente da un’azienda medio grande, ma il discorso cambia per le aziende medio piccole le quali devono pagare il lavoratore ugualmente (almeno in parte), comunque anticipare il tutto ed organizzarsi per sostituirlo qualora il medesimo ricopra una mansione importante.
Altro tema delicato è quello della eccessiva morbilità di un gruppo di lavoratori di un’azienda o di un reparto. Il problema, solitamente, non risiede nella lunghezza della malattia dei dipendenti (comunemente intorno ai tre giorni) ma dal numero complessivo di assenze dei lavoratori.
La materia è complessa e variegata ma, in linea di massima, in questi casi l’approccio aziendale dovrà necessariamente essere collettivo, stipulando accordi aziendali e/o favorendo incentivi che dissuadano il lavoratore ad assentarsi con troppa facilità.
Accertamenti medico-legali
Come è stabilito dalla legge, i controlli da parte delle Asl, per verificare l’effettivo stato di salute, possono essere effettuati sui lavoratori, attraverso visite a domicilio o presso ambulatorio, ma solo in determinate fasce orarie (le cosiddette “fasce di reperibilità“), tutti i giorni, compresi i festivi:
- per il settore privato, dalle ore 10 alle ore 12 e dalle ore 17 alle 19;
- per il settore pubblico, dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 18, anche per un solo giorno.
L’obbligo di sottoporsi a controlli o visite fiscali a domicilio sussiste anche in caso di esaurimento nervoso.
In caso di assenza ingiustificata al controllo domiciliare o alla visita in ambulatorio, è prevista la sospensione dell’indennità totale per i primi dieci giorni di malattia. In caso di assenza ingiustificata alla seconda visita di controllo, l’Inps sospende la metà del trattamento economico. L’assenza alla terza visita di controllo, comporta la sospensione dalla data dell’ultima assenza. Il rifiuto di sottoporsi alla visita di controllo o visita fiscale, infine, può essere punito con il licenziamento.
Appare ovvio che in questo variegato e complicato contesto le aziende che vogliono limitare al minimo i problemi produttivi ed organizzativi derivanti dalle assenze per malattia del lavoratore singolo o da gruppi di lavoratori non possono limitarsi a provvedimenti estemporanei e raffazzonati ma devono necessariamente dotarsi di professionisti che abbiano una visione d’insieme e che sappiano interagire con i lavoratori o con i rappresentanti sindacali, per trovare il giusto equilibrio tra i diritti del dipendente ed i diritti aziendali (le cosiddette “relazioni industriali“).
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