Baban (Piccola Industria): «Massimo impegno per difendere il nostro sistema industriale»

46 anni, imprenditore di prima generazione, Alberto Baban, dopo aver guidato dal 2010 a oggi la Piccola Industria di Confindustria Veneto, è dallo scorso novembre presidente della Piccola Industria di Confindustria per il biennio 2013-2015. Presidente del Gruppo Tapì, impresa fondata con un socio nel 1998 e specializzata nella produzione di tappi sintetici brevettati per vino e liquori, ha visto crescere la sua azienda che conta oggi 5 siti produttivi tra Italia, Messico e Argentina, una presenza commerciale in oltre 60 nazioni e un fatturato che nel 2012 è stato pari a 22 milioni di euro.
Con il neo-presidente abbiamo parlato della situazione del sistema industriale del nostro Paese, del suo modo di intendere la rappresentanza e delle sue previsioni per l’anno appena iniziato.

Le pmi italiane sono ancora capaci di vincere le sfide poste dal mondo globalizzato?
«In Italia ci sono circa 210 mila piccole e medie imprese a fronte di 3.400.000 micro imprese. In prospettiva, quindi, molte delle imprese che oggi, per ragioni dimensionali, non riescono ad accedere ai mercati esteri dove è forte la richiesta di prodotti italiani, potrebbero internazionalizzarsi ampliando la pattuglia delle aziende italiane che esportano con successo. Purtroppo poche di queste micro imprese hanno una struttura organizzativa tale da poter compiere il passo dell’internazionalizzazione. Così i mercati esteri che hanno la possibilità di comprare i prodotti italiani continuano a non trovare nel nostro Paese strutture organizzative capaci di soddisfare la loro domanda».
Quali misure bisognerebbe mettere in campo, allora, per aiutare le imprese a crescere?
«Bisogna tenere presente che l’export aiuta le imprese a crescere, ma non è la sola soluzione. Si devono aiutare, infatti, le aziende ad accedere ai mercati esteri, ma, nello stesso tempo, bisogna risolvere il problema della domanda interna stagnante. È necessario, dunque, procedere in entrambe le direzioni. Una prima attività da svolgere a favore delle imprese è quella informativa: dobbiamo riuscire a illustrare al sistema delle imprese i vantaggi dell’internazionalizzazione e le modalità da seguire per accedere ai mercati esteri. È questa, ad esempio, la finalità del Road show per l’internazionalizzazione delle imprese patrocinato dal Ministero degli Affari Esteri e promosso e sostenuto dal Ministero dello Sviluppo Economico, insieme all’ICE-Agenzia, a SACE e a SIMEST, a Confindustria, Unioncamere, Rete Imprese Italia e Alleanze delle Cooperative Italiane, la cui prima tappa si svolgerà a Biella il prossimo 27 gennaio. Insieme a questa attività informativa, il Governo dovrebbe attuare misure incentivanti che incoraggino le imprese a tornare a investire, ad aumentare le proprie dimensioni grazie alla costituzione di reti di imprese o a operazioni fusioni/acquisizioni».
E lei cosa si ripromette di fare nel biennio di presidenza per aiutare i suoi associati a crescere? Quali saranno i punti salienti del suo programma?
«Alle circa 150 mila aziende iscritte al nostro mondo associativo racconteremo quali sono le opportunità offerte dai mercati esteri e come le si può intercettare. Massimo sarà l’impegno per difendere il nostro sistema industriale. Ogni volta che perdiamo un’azienda, infatti, vanno in fumo anni di competenze radicate sul territorio. Dobbiamo difendere il nostro sistema delle imprese per evitare questo depauperamento. Per farlo, oltre a spiegare alle imprese nostrane le opportunità dei mercati esteri, dovremo spiegare ai mercati il sistema delle imprese italiane, non solo le singole aziende, ma gli eco-sistemi di business che fanno la ricchezza del nostro sistema produttivo. Quando si parla dell’Italia, infatti, si pensa a un sistema fortemente parcellizzato fatto di singole aziende di piccole dimensioni, sottintendendo che questo rappresenti più un problema che una qualità. In realtà, raccontando gli eco-sistemi di business che ben funzionano, si capisce perché siamo il Paese manifatturiero d’Europa e il settimo al mondo».
Pochi giorni fa il Consiglio Centrale Piccola Industria ha nominato i componenti della squadra di vicepresidenti che la affiancheranno in questi due anni. Ci può spiegare i criteri che hanno guidato la scelta del Consiglio?
«I membri della squadra sono stati scelti innanzitutto per rappresentare la ricchezza dei nostri territori, ognuno dei quali ha preziose tipicità e opportunità di sviluppo. Anche se, ad esempio, ci sono territori storicamente molto avanzati dal punto di vista del tessuto imprenditoriale, anche al Centro Sud ci sono opportunità per un’industria vocata all’export che vengono dall’apertura dei mercati mediterranei, del Nord Africa. Nella scelta dei membri della squadra, dunque, abbiamo voluto dare una rappresentazione di tutti i territori del nostro Paese, senza stereotipi. Abbiamo, poi, puntato sulle competenze delle singole persone, perché la nostra squadra dovrà dare agli associati molte risposte e molte proposte. Da ultimo, accanto a personalità di provata esperienza del sistema confindustriale, circa la metà della squadra è costituita da neofiti, giovani che possono fornire un input innovativo all’associazione».
Se le imprese devono cambiare per sopravvivere, anche il mondo delle associazioni sta vivendo un momento di svolta. Come pensa dovrà rimodularsi nel suo modo di operare anche l’associazione da lei presieduta?
«Seguiremo le linee della Commissione Pesenti che ha disegnato una riforma coraggiosa del sistema confindustriale. Vogliamo essere presenti sui territori per informare e stare vicini ai nostri associati. Partiremo dal Sud, dove abbiamo organizzato il primo appuntamento per il 30 gennaio. Non andremo nella sale-convegni, ma nelle fabbriche perché la nostra associazione è l’espressione del manifatturiero e della capacità lavorativa del nostro sistema industriale. Staremo molto più vicini ai nostri associati, vivremo con loro, parteciperemo alla loro realtà, per capire i problemi e trovare le soluzioni».
Quali sono le sue previsioni per l’anno che è appena iniziato?
«Il nostro è un Paese a due velocità. Ci sono le imprese vocate all’export e quelle molto innovative che hanno la possibilità di agganciare la ripresa. Ci sono, poi, le imprese che hanno le caratteristiche distintive dell’italianità, come quelle della moda, che hanno la possibilità di intercettare la domanda proveniente dai mercati esteri con grandi capacità di acquisto. Poi ci sono le imprese che lavorano per lo Stato italiano (che non ha ancora quantificato il suo debito nei confronti di tali imprese e non si è ancora adeguato alla direttiva sui late payment) e per il mercato interno. Per queste imprese le prospettive sono meno rosee. Il 2014 potrà essere l’anno della ripresa dei mercati globali, ma dubito che si possa parlare di vera ripresa in Italia. Al massimo si bloccherà la discesa. In un Paese in cui la maggior parte delle aziende sono orientate al mercato interno e pochissime esportano, se manca la capacità di acquisto e la volontà di investimento, non si può essere troppo fiduciosi che il 2014 sarà l’anno della svolta. Per riprendere a crescere il nostro Paese deve ripartire al suo interno».
Non c’è proprio nessun elemento positivo?
«Una prospettiva positiva c’è: i mercati mondiali si stanno orientando verso manufatti con le caratteristiche tipiche dell’italianità. Non solo la preziosa qualità del manufatto tedesco, ma una forte concentrazione di bello e ben fatto che è tipica dei nostri prodotti e che sappiamo esprimere non solo nella moda, ma anche, ad esempio, nella metalmeccanica. Dovremo cogliere questa tendenza che sta segnando una svolta sui mercati, anche i più lontani, che oggi hanno una forte capacità di acquisto. Non solo gli USA, che sono tornati a essere il leone ruggente di un tempo, ma anche Paesi, come la Cina, che non sono più soltanto fornitori, ma anche interessanti compratori. Il mercato sta cambiando con una velocità senza precedenti e i mutamenti nel mercato e nella manifattura sono così repentini che le cose possono cambiare in tempi rapidissimi. Se riuscissimo a cogliere la svolta dei mercati, dunque, non è detto che le mie profezie negative non possano essere smentite».
La svolta dovrebbe essere incoraggiata dalla politica. Ci sta riuscendo, secondo lei?
«Per risolvere il più grande problema dell’Italia, la disoccupazione, lo si può fare solo con un programma di incentivi alle imprese. È quello che ha fatto la Spagna e che sta per fare la Francia dove un presidente socialista, partito da una posizione di assoluta difesa del lavoro, ha messo in campo un piano di 30 miliardi di euro di incentivi alle imprese che investono e creano lavoro. Avendo questi esempi concreti dei nostri vicini, non avremmo neanche bisogno di inventare qualcosa di nuovo. Da parte del nostro Governo, però, manca un atto di coraggio. Non si capisce che è solo dalle imprese che può venire la ripresa. L’attuale fase di stallo, di mancanza di decisioni è pericolosa perché potrebbe anche produrre un’implosione del nostro sistema».
Anche l’insistenza europea sull’austerità contribuisce a bloccare un Paese come il nostro, gravato da un enorme debito pubblico, non crede?
«L’Europa ha compiuto un grave errore accomunando l’austerità alla disciplina. L’Italia è stato un Paese indisciplinato, che ha creato debito, che non ha saputo rivedere la propria spesa pubblica. Ma pensare che austerità significhi disciplina è sbagliato. L’austerità non può portare crescita. L’Italia ha bisogno di disciplina, ma non si può affamare un sistema per costringerlo a spendere meno. Nell’ottica di un piano organico di politica industriale, bisognerebbe indurre l’Europa a ridiscutere il rapporto deficit-Pil, costringendola ad allargare i cordoni della borsa a favore non della spesa, ma di investimenti».

Direttore responsabile de Il Giornale delle PMI
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